Vogliamo tornare a questo?
di Silva Bon
Vogliamo tornare a questo? Oppure stiamo tornando, siamo già tornati a tutto questo?
Esuli, migranti. Si è da poco conclusa la seconda guerra mondiale, e noi siamo senza casa, senza lavoro, senza il sostegno di un capofamiglia: mia madre ed io, in una stanza in subaffitto, con comodo di cucina, senza bagno, solo uno stretto e lungo stanzino, quasi senza finestra, freddo e umido, il cesso.
Mia madre non la vedo da ore, e improvvisamente nel silenzio e nell’isolamento della casa, mi affaccio alla stanza, la nostra stanza da letto.
Irene, mia madre, è riversa, abbandonata sul letto, in preda a violente convulsioni, che la scuotono tutta; piange disperatamente, un pianto irrefrenabile. È disperata perché suo marito, mio padre, è lontano, ricoverato in un Ospedale di Bressanone perché ammalato di tubercolosi, una malattia che nei primi anni Cinquanta era difficilmente curabile, non c’erano ancora gli antibiotici. La malattia l’aveva contratta in un campo di lavoro forzato, dove era stato ridotto dai nazisti: una retata lo aveva portato via da Capodistria, nell’agosto 1944, in calzoncini corti, senza null’altro addosso che una leggera maglia estiva.
Ma io capivo solo che mia madre si agitava, si dibatteva, piangeva e si lamentava, e io ero impotente, inginocchiata vicino al letto, e non potevo fare niente per lei, e soffrivo atrocemente.
Due donne sole, una giovane donna istriana e una bambina di forse nove anni.
Ho ricostruito questa vicenda, un vissuto che si è protratto nel tempo, con crisi nervose, epilettiche, ripetute, cui ho assistito spaventata e muta, senza parole, perché non trovavo parole …
Un trauma che avevo dentro di me, che ho trovato il coraggio di raccontare, dopo aver riletto con maggior attenzione il bel libro di Gloria Nemec, pubblicato qualche anno fa nella Collana 180. Salute Mentale, con il titolo evocativo: Dopo venuti via … Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine 1945-1970
I profughi, gli esuli, i migranti non li vuole nessuno: i triestini erano ostili, perché la miseria era diffusa, e forse la strada amara dell’emigrazione oltremare in cerca di fortuna, esperita da molti residenti in città, era attribuita come una colpa proprio ai nuovi venuti.
Mia madre ha avuto dei brevi periodi di ricovero nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste, ma sostanzialmente, una volta dimessa, non aveva nessuno cui rivolgersi per un sostegno medico continuativo.
Eravamo abbandonate a noi stesse. E ancora non so come siamo andate avanti.
La cura, come è intesa nella Salute Mentale di Comunità, è cura reciproca, prendersi cura dell’Altro: la presenza di qualcuno che si faccia carico dei problemi dei più fragili; l’azione pratica, concreta, attiva di qualcuno che aiuti a risolvere i problemi, tutti i problemi, non solo quelli strettamente psichiatrici, perché il disagio parte anche, è attraversato, è motivato da situazioni peculiari di vita, complesse e contraddittorie, come lo è la vita materiale, la vita umana.
E oggi sta tornando tutto: i Centri come ambulatori dispensatori di farmaci, spazi vuoti, a volte perfino evitati, perché le persone sofferenti hanno paura di un rifiuto; si sentono a disagio perché hanno la percezione netta che nessuno si faccia carico di loro.
Sono denunce che si muovono su un piano privato; le persone sono sole, depresse; hanno perfino paura, oppure rassegnazione, passiva sopportazione; sono scoraggiate e non riescono a trovare la strada. Perché non trovano risposte.