E’ esemplare di gran parte delle persone che ieri finivano nei manicomi giudiziari la storia personale e la viacrucis istituzionale del giovane VG che si è tolto la vita nel carcere di Regina Coeli venerdì 24 febbraio. Alle spalle una famiglia con pochi mezzi, una vita difficile e una diagnosi facile, “disturbo cognitivo”. Dopo di che, una viacrucis istituzionale, anch’essa esemplare, che inizia a tredici anni e si snoda tra servizi e istituzioni della neuropsichiatria infantile prima e nei servizi di salute mentale poi, fino alla Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems ) e da ultimo al carcere. Inutile precisare che era accusato di reati “bagatellari”, come si dice in linguaggio tecnico, cioè di poco conto: danneggiamenti e resistenza.
E’ necessario e doveroso ricostruire i passaggi che VG ha fatto in quel territorio fra sanità e giustizia penale in cui spesso si perdono le persone che hanno vite difficili e diritti fragili. La lotta contro il manicomio giudiziario l’abbiamo iniziata, oltre quaranta anni fa, quando Albina Bernardini è morta bruciata in un letto di contenzione nel manicomio giudiziario di Pozzuoli, e anche lei era una persona povera, aveva litigato con un carabiniere in borghese e aveva alle spalle una diagnosi psichiatrica che rendeva ancora più fragili i suoi diritti e senza valore le sue parole.
Oggi i manicomi civili sono chiusi da tempo e quelli giudiziari da poco ma sono ancora tutti in funzione i meccanismi e le culture che vi facevano affluire le persone nate o sospinte ai margini della società. Lavorare su questi meccanismi e culture deve essere per noi il compito di oggi e di domani. Senza dimenticare la lotta più generale contro le disuguaglianze che fanno crescere le vite marginali e alimentano il dolore sociale.