voltoQuando penso alla parola assistenza, non so voi ma a me vengono in mente delle immagini in cui qualcuno con una divisa bianca sostiene un vecchietto nella sua andatura incerta, oppure persone allettate per una malattia che hanno bisogno di essere accudite da personale preparato appositamente.

Ma dove lavoro io non ci quasi mai vecchietti e persone allettate, di quel tipo, mancano proprio.

Se io dovessi costruirmi una immagine del lavoro che faccio dovrei giustamente metterci dentro le porte chiuse, la costrizione a letto tramite la contenzione, il ricovero coatto come piace tanto dire qua.

Ma non ci riesco perché è una immagine troppo brutta, esteticamente sgradevole che rovina quasi il decoro pubblico (come succede per la mia primaria che applica la contenzione ma poi non vuole che si sappia pubblicamente perché dice: “altrimenti poi dicono che leghiamo i pazienti”!!!) ed è quindi sconsigliato farmi identificare in questo modo.

Allora devo trovare qualche altra immagine permettendomi così di farmi identificare da voi e io con il mio lavoro.

Ci provo.

Penso che per avere una immagine di me e del mio lavoro ci siano tanti modi ma scelgo perché sia chiara e precisa qualcosa che sia certo e in un certo senso misurabile, quindi professionale.

Avete mai sentito parlare delle guide? Non quelle alpine, ma quelle che vanno tanto di moda negli ambienti sanitari e poi le procedure, i protocolli sanitari, tutti strumenti che dovrebbero qualificare il lavoro che si fa, oggettivarlo e migliorarlo?

Ecco, dovrei trovare qualcosa di affine che mi permetta di avere una immagine positiva e di cui vada un po’ fiero….

Trovato!

La misura della mia immagine e di quanto io sia efficace, utile e positivo nel lavoro è la consegna tra operatori. Chissà che leggendo quanto scritto io possa andarne orgoglioso e mi esca l’immagine.

Dovete sapere che la consegna (oggi viene chiamato diario giornaliero) è uno dei pochissimi “documenti oggettivi” dove sto io ed è il passaggio scritto che avviene ai cambi turno di lavoro e che racconta come stanno i pazienti, cosa facciamo per loro ecc.

I pazienti la conoscono bene perché è un momento “sacro” e topico quello della consegna, in cui non possono disturbare con le loro richieste. Si parla di loro infatti!

E’ un documento che ha validità come atto di pubblica autorità e in caso di responsabilità civili o penali finisce dritto dal magistrato, insieme alla cartella medica.

Ora so perfino che ha una certa autorità e un’aurea di importanza e quasi quasi comincio a sentirmi importante anche io.

Bene, bene, mi frego le mani contento della mia bella idea e comincio a leggere le consegne fatte per ogni paziente che è presente nel reparto, scorro le diverse scritture dei vari colleghi che si avvicendano nei turni, passo dalla lettura di un paziente ad un altro, mi soffermo su alcune parole significative, comincio a notare le cose che si ripetono, cose invece che non vengono dette e altre che invece mi paiono esagerate.

Leggo quel che si fa entrare in una riga o poche righe e diventa tutta la vita di una persona nello scorrere delle giornate ed è stupefacente come a forza ce la facciamo, per farcela stare, l’esistenza.

La scrittura, da noi, deve essere stata inventata per tagliare corto ed andare al sodo di quello strano fenomeno che è la vita umana ridotta ai minimi termini, dai soli comportamenti esteriori.

Noto, prima di tutto, come non venga mai descritto qualcosa di personale del paziente, e manchi qualsiasi accenno positivo o meglio ancora che la positività dentro il reparto venga sempre descritta con termini quali “collaborante” e “disponibile”.

In questa riga o poco più, il 60-70% delle volte il paziente viene descritto come “tranquillo e disponibile” e questo mi rappresenta la norma, la nostra norma, cioè quello che noi vogliamo da lui e poco importa se di questo 60-70 per cento l’80 per cento riguarda pazienti depressi, tentati suicidi, pazienti ansiosi, fobici e sedati, l’importante è che stiano alle nostre regole e ancora non occorre che ci raccontino o scriviamo della loro disperazione interiore, del loro bisogno o delle loro motivazioni e di come noi rispondiamo, a noi basta che siano tranquilli e ….disponibili.

Sembra quasi che il loro problema venga annullato nella tranquillità e disponibilità, oppure essendo tranquilli e disponibili non abbiano nessun problema.

All’opposto (per circa il 5-10 per cento delle descrizioni) trovo scritto molto di più e con parole come irritabile, aggressivo, non collaborante, si rifiuta, ma noto anche che quasi sempre non viene mai evidenziato un motivo… il paziente è tautologicamente aggressivo perchè è aggressivo. Quello che è accaduto, accade e accadrà.

Conoscere, capire e sapere per prevenire e agire psicologicamente non è il nostro forte perchè noi usiamo in questi casi un’altra parola che non scriviamo (al suo posto mettiamo i nomi dei farmaci) tanto è diffusa, pratica, costante e che si chiama sedazione e poi, quella si che la scriviamo, se c’è “bisogno”, contenzione.

In mezzo a questi due opposti e per circa il 20-35 per cento delle descrizioni in quelle pochissime righe ci sta poi tutto il resto, se mangia, se dorme, se fuma, se fa esami, se vengono i famigliari a trovarlo, in una ripetizione monotona e ossessiva priva di qualsiasi slancio vitale.

Se voi leggeste al posto mio quanto scritto tra i due opposti non troverete mai nulla che riguardi desideri, aspirazioni, delusioni, paure, indecisioni, solitudini, conflitti, progetti, come se i pazienti fossero svuotati di ogni facoltà umana interna.

Mi accorgo a questo punto che quasi tutto non viene scritto e detto e quello che andrebbe detto e scritto riguardo i pazienti non è degno nel mio Spdc.

Esseri mancanti che sono immagini di quanto manca a noi veramente per vederli.

Chiudo le ultime pagine e non so se avete capito, ma questa è l’unica immagine che alla fine mi resta, leggendo le consegne, unico strumento oggettivo della mia professionalità: quella di un Infermiere – identità mancante fra esseri mancanti – che fa vita da Spdc in un posto di contenzione, porte chiuse e ricoveri coatti, come piace tanto dire qui.

Lorenzo.

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