Il vitalismo di una legge nell’epoca delle passioni fragili
(16 maggio 1978 – 16 maggio 2023)
di Daniele Piccione
Talvolta gli anniversari possono essere crudeli. I quarantacinque anni della l. 13 maggio 1978, n. 180 non potevano essere celebrati con la pienezza di spirito che in molti avremmo voluto, perché una cappa plumbea fa da sfondo al sistema di protezione della salute mentale qui ed oggi. Il tragico omicidio della psichiatra Barbara Capovani pare rilanciare lo stesso clima di urgenza che si avvertiva in Parlamento nella primavera del 1978. Ma solo in apparenza. Anche per questa malintesa urgenza, trasformata in emergenza dal bersaglio errato, mai le celebrazioni per l’epitaffio ai manicomi sono state condotte con una nota tanto acuta di malinconia e inquietudine. Ma il primo sentire, per noi che sosteniamo la legge 180, origina dalla scomparsa di Franco Rotelli, troppo recente per essere anche solo in parte compresa nel suo senso di perdita senza rimedio. Lui che, dello sviluppo effettivo della l. n. 180 del 1978, è stato inesausto e creativo interprete.
Il lutto e lo sconcerto per la mortale aggressione di Pisa hanno dunque riaperto collateralmente lo scenario del revisionismo, rinnovando l’indebita proiezione sulla legge del 1978 delle immense contraddizioni che abitano i sistemi di protezione sociale, specie nelle aree in cui si incrociano i miti neo-securitari e la penosa regressione del principio di solidarietà (art. 2 Cost.) su cui poggia il nostro welfare.
E invece la fertile stagione della deistituzionalizzazione, con i suoi frutti maturi racchiusi nell’epocale legge del maggio del 1978, andrebbe riletta in termini di modello paradigmatico superando in breccia il minimalismo di chi la interpreta come un’isola puntiforme in un mare di inefficienze ed inadeguatezze. Quarantacinque anni fa l’urgenza della legge – va ricordato – nasceva dalla prospettiva referendaria che minacciava di disarticolare comunque la legge giolittiana sugli ospedali psichiatrici civili, lasciando però in sua vece un deserto abbandonico. Vi era poi la contingenza politica a richiedere di condurre in porto una pagina di legislazione che avrebbe poi costituito l’ultimo sussulto parlamentare dell’epoca del disgelo dei diritti costituzionali. Non solo il quarto Governo Andreotti, fortemente voluto e costruito da Aldo Moro, era il primo a fondarsi su potenziali basi di allargamento della maggioranza che comprendeva il partito comunista, ma l’opera di Tina Anselmi, allora Ministro della Sanità, garantivano irripetibili prospettive di successo ad una legge di costruzione dei servizi che si sarebbe poi integrata con l’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale, a vocazione universalistica e gratuita, nel dicembre del 1978.
Se dunque quell’urgenza umanitaria, che era stata anche la cifra caratteristica delle pratiche e della dottrina di Franco Basaglia, può far pensare ad un tessuto normativo radicaleggiante e percorso da un vivido afflato di sviluppo della comunità politica, i valori compositivi alla base della l. n. 180 del 1978 avevano già un’inedita esperienza di sperimentazione sociale alle spalle. Insomma, erano stati testati sul terreno concreto dei territori.
Il modello di assistenza psichiatrica “senza l’ombra del manicomio sullo sfondo o nelle retrovie” (Goffman), stava prendendo piede a Gorizia, a Trieste e nelle città dell’espansione antistituzionale come Arezzo e Livorno. Di più, le idee delle cooperative, tessuto partecipativo di sostegno ai servizi territoriali, aveva cominciato a fare capolino, rappresentando il superamento della monolitica alternativa all’ospedale psichiatrico rappresentata dalla sola Comunità terapeutica. La netta recisione, nel campo della legislazione civile, del terribile stigma connesso alla presunzione di pericolosità del malato di mente segnava, invece, uno straordinario mutamento culturale. Già solo queste istanze tradotte in disposizioni di legge avrebbero marchiato a fuoco un epocale traguardo nella nostra cultura giuridica, capovolgendo lo statuto delle psichiatrie tradizionali in favore di un possente slancio verso la tutela della salute mentale integrata sui territori, vicina ai bisogni delle persone, inclusiva e non segregante.
Ma il valore epocale della legislazione italiana – captato prontamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – si diffuse grazie alla diversificazione dell’offerta terapeutica e riabilitativa garantita dall’ombrello dei dipartimenti di salute mentale, dall’accanita lotta allo smantellamento – anche nelle metropoli lungo il sofferto decennio degli ottanta – degli ospedali psichiatrici, con il loro carico di marginalizzazione intollerabile. Fu vinta la scommessa di tratteggiare un riferimento legislativo alla prevenzione; si rivelò decisivo il diffondersi di pratiche pioneristiche nel campo del mutuo aiuto e del protagonismo degli utenti dei servizi, di seminali spunti di quello che, nei decenni successivi, sarebbe divenuto il pieno coinvolgimento del terzo settore. Coraggiose soluzioni di demolizione del nodo gordiano tra psichiatria organicistica e potere di abrasione dei diritti costituzionali testimoniarono l’onda lunga delle avanguardie culturali, anche nella traiettoria dell’attuazione della legge, così da alimentare un vitalismo intergenerazionale che avrebbe poi consentito la diffusione, a livello internazionale, dei valori della nostra legislazione.
Sin dalla sua entrata in vigore, su questo straordinario impianto legislativo di progresso sociale della nostra comunità politica, si è tuttavia abbattuta la scure dei malintesi, delle manomissioni delle parole attraverso slogan e litanie, dell’inaridimento dei flussi di alimentazione finanziaria, non di rado anche delle strumentalizzazioni a fini esplicitamente revisionistici. Così, come in grande è del resto accaduto persino alla stessa Costituzione repubblicana, sulla legge si sono scaricate le contraddizioni del selvaggio recedere della protezione sociale, della truffa delle etichette dietro le quali si annida il ritorno di nuovi e subdoli involucri manicomiali e di pratiche da consegnare al dimenticatoio, riproposte sotto le vesti ingannevoli del nuovismo. Come sempre capita, alle leggi gentili che “restituiscono la soggettività” (Rovatti), è toccato in sorte di battersi contro molti e talvolta occulti avversari. Ma dietro questo assedio che a tratti è parso poter aprire brecce nell’effettività di una legge tra le più vissute e partecipate della storia repubblicana, si aprono orizzonti vasti che gli assedianti dovrebbero scrutare, se non altro per poter ragionare di ciò che, persino opportunisticamente, converrebbe loro in termini di rendimento degli indirizzi di politica sociale e sanitaria. E allora alla tentazione di puntare tutto e forte su nuovi luoghi dell’esclusione, su modelli di regionalismo competitivo e non solidale, sullo smantellamento della salute mentale integrata grazie al sistema dei distretti delle città che curano, sulle leve di un modello di protezione sociale sempre più classista, selettivo e crudele con i fragili, il vitalismo persistente della legge Basaglia potrebbe opporre nuove e insperate risorse culturali.
A scacciare le ombre che gravano su questa primavera inquieta, potranno al fine giungere in soccorso le direttrici internazionali sostenute dall’Organizzazione Mondiale della Salute, dovrebbe spandersi la consapevolezza di proseguire la lotta alle segregazioni occulte, con appositi strumenti legislativi che peraltro già giacciono in Parlamento; si concretizzeranno le linee di attuazione della l. n. 227 del 2021, in materia di disabilità, che rilanciano la deistituzionalizzazione e il rafforzamento della capacitazione delle persone che vivono l’esperienza del disturbo e della disabilità. Non tutto è immobile, dunque. Lo scenario è frastagliato.
Più di ogno cosa, occorre puntare su una nuova generazione di operatori, psichiatri, utenti e familiari forti abbastanza da scavalcare le pressioni regressive in favore della revisione legislativa. Sono loro i baluardi a difesa della legge Basaglia. Ed è a queste forze vive della società che occorre guardare con ottimismo per rilanciare sui tavoli di quello che manca ancora: la tutela della salute mentale nelle carceri, il superamento degli imperfetti equilibri del trattamento del c.d. “folle reo”, il progressivo allineamento dell’ordinamento ai principi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
Ecco che allora, se si sapranno riproporre i valori vitalistici della legge 180, se ne potrà rilanciare la compiuta attuazione. Così, il nuovo mondo dei diritti all’inclusione e alla vita indipendente (art. 19 Convenzione ONU) piena ed integrata, nelle sue pieghe sociali e non solo sanitarie, verrà in aiuto del vecchio mondo che, pur apparendo minoranza radicata in una piccola parte di Italia, seppe farsi egemone e riconsegnare, quarantacinque anni fa, i diritti fondamentali ai propri fratelli fragili, liberandoli dalle mura che circondavano i giardini di Abele (Zavoli).
Quando tutto questo capiterà, forse, da apparenti assedianti, i revisionisti della legge Basaglia potranno ritrovarsi assediati.