La questione dei SPDC, dei ricoveri delle persone in crisi, è sempre stata una cartina di tornasole dell’assistenza psichiatrica in Italia dopo la chiusura dei manicomi.
Le questioni cruciali che investono i servizi psichiatrici di diagnosi e cura ruotano intorno alla contraddizione fondante della psichiatria: la dicotomia cura e custodia, soggettivazione e oggettivazione.
Alcuni tra gli elementi che hanno mantenuto sempre viva tale contraddizione, nei manicomi prima e negli SPDC oggi, sono stati la contenzione e le porte chiuse, insieme al sostanziale disinteresse per le persone e per i loro diritti. Questo è racchiuso nella celebre risposta di Basaglia allorquando gli fu chiesto “ ma lei è interessato più alla malattia o al malato”? Come si ricorda la risposta di Basaglia fu secca e immediata: indubbiamente al malato. Il malato significa persona, soggetto, diritti, negoziazione, dignità, rispetto, sofferenza. Mentre malattia significa oggettivazione del sintomo, simmetria di potere e quindi assenza di diritti e di negoziazione, con-clusione della persona in un disperato e poco scientifico riduzionismo biologico.
Oggi potremmo certamente affermare che gli indirizzi di un DSM si possono dedurre osservando il SPDC, premettendo che non credo assolutamente che possa esistere un buon SPDC in un cattivo DSM e viceversa. Possiamo affermare che il SPDC è la cartina di tornasole del funzionamento dei CSM osservando il numero di TSO, il numero e la durata dei ricoveri, il sovraffollamento di SPDC con alto numero di PL.
Oggi, tra l’altro, viviamo un’epoca in cui tutto il sistema sanitario sta correndo al riparo per la grave crisi che investe gli ospedali optando per “l’intensità di cura”, quindi minori ricoveri e di breve durata. L’ospedale ridotto all’indispensabile, eliminando il superfluo che pure è stato massicciamente presente nei sistemi sanitari e, come si dice, il superfluo è nemico del necessario. Ma il ricorso al SPDC è molte volte sintomo di un’assenza di percorsi assistenziali nel territorio. E allora, quando le pratiche sono incentrate esclusivamente sulla riduzione del sintomo, sul paradigma della “stabilizzazione del paziente” come se fosse in una rianimazione o in una cardiologia, è facile immaginare come le cattive pratiche siano dietro l’angolo. E quali sono queste cattive pratiche così diffuse? In primis il circuito operativo del ricovero- dimissione – visita di controllo nel CSM ridotto ad ambulatorio medicale – invio in una comunità terapeutica a vita delle persone che osano “stare male” più volte perché non rispondono a modo alla “terapia” – invio nei tradizionali Centri Diurni per “domarli”, silenziarli, spegnerli e infantilizzarli. Inoltre in una logica d’attesa e poco pro-attiva.
Il terminale per le persone che stanno male diventa troppo spesso il SPDC. E cosa succede nel SPDC di un tale DSM? Che le persone pian piano iniziano a perdere la speranza di poter stare meglio, di poter vivere una vita dignitosa, di poter uscire dalla trappola infernale del circuito metodologico di una psichiatria positivistica di fine ottocento.
Ma addirittura si sfiora il ridicolo, se non fosse drammatico: nei SPDC vengono inviati, da medici dei CSM, persone a cui bisogna sostituire un farmaco con un altro, persone in situazioni di grave malessere vengono inviati in SPDC di altre ASL se non di altre Regioni, “per mancanza di posto letto” perché il SPDC è sovraffollato. Come se per la persona in crisi non fosse indispensabile la “vicinanza” di operatori che conosce, di attenzioni, di sostegno, conforto e speranza, come direbbe Eugenio Borgna. E allora nei SPDC, in servizi così indirizzati, ri-prendono facilmente forza pratiche che Sergio Piro definiva “residui operazionali storici”, intendendo con operazionale residui (pratiche) contemporaneamente teorici e pratici: la contenzione , “ per tutelare il paziente” , e la porta chiusa ,“ sempre per tutelare il paziente”. Aggiungiamo anche che l’incapacità di costruire rapporti e percorsi di ripresa comporta che le persone vengano ricoverate molto a lungo fino a quando, con la “terapia” esclusivamente farmacologica, non diventano insensibili a qualsiasi speranza di ripresa e diventano “accomodanti”, si “arrendono”. Si potrebbe continuare sulla tempestività dell’intervento, merce rara, anche a domicilio nel momento che la persona sta male e che si potrebbe evitare un ricovero o addirittura un TSO e invece s’interviene quando la persona ha accentuato moltissimo il proprio malessere per cui si rende “necessario” il ricovero e con il “paziente” che sta talmente male che bisogna contenerlo o custodirlo per evitare che “scappi”. E’, ovviamente, in questo caso c’entra molto anche l’organizzazione del CSM, il suo orario d’apertura e quindi di disponibilità di accoglienza delle persone che stanno male.
In conclusione è un servizio nel suo insieme che determina un cattivo SPDC e non esiste un SPDC buono o cattivo sganciato dalle strategie complessive del DSM. Credo che questi siano alcuni spunti di discussione per il Forum di giugno a Pistoia, senza pregiudizi e senza trionfalismi.
1 Comment
sono molto d’accordo con le considerazioni di Vito, gli SPDC rispecchiano una pratica, la pratica dei DSM, allora non è più accettabile guardare alle criticità isolando i servizi che formano il DSM. In molte realtà ogni servizio all’interno del DSM lavora in modo autonomo dall’altro.
Il paziente è unico, gli interventi che si fanno con lui sono spezzettati quando va bene, altrimenti completamente disorganizzati producendo danni a volte irreparabili.
tonia di cesare