Irritazione e sconcerto, queste le mie prime reazioni, dopo la lettura-confronto con il libro di Paolo Milone, L’arte di legare le persone. E anche dolore e paura, timore per una possibile regressione delle pratiche messe in campo dagli psichiatri italiani, rispetto al processo di liberazione attuato da Franco Basaglia e dai suoi epigoni. E inoltre sensazione acuta, preoccupazione che le parole di Milone possano incidere sull’opinione pubblica, rafforzando ogni pregiudizio e ogni prevenzione, stigmatizzando vieppiù la sofferenza mentale.
Io so la follia e so anche cosa significa subire violenza, violenza e forza brutale, quando mi sono opposta con decisione all’assunzione di un farmaco. È successo a Praga, ma forse sarebbe potuto accadere anche in altre parti d’Italia: uno psichiatra e tre infermieri sopra di me, per immobilizzarmi e farmi l’iniezione, che assumeva la forma di contenzione chimica, farmacologica.
La contenzione meccanica non l’ho sperimentata sulla mia pelle. Comunque ho vivissimo il sentimento provato in quella notte d’inferno: prima di stupore, di tradimento, poi di assoluta impotenza, di impossibilità, di nullità e di povertà della mia persona, messa di fronte alla prevaricazione del potere medico. Io ero sola, “nuda”, indifesa, nella mia miseria, in completa balia.
Legare le persone è un crimine, che non si giustifica, né si può giustificare in nessun modo.
Penso che gli psichiatri esercitino una professione molto speciale, diversa da quella dei medici di ogni altro campo della medicina. Se essi mancano l’incontro con l’Altro e non riconoscono la soggettività delle persone, ma anzi le racchiudono in strette definizioni di diagnosi cliniche oltre le quali non c’è scampo, non c’è via d’uscita; impediscono ogni possibilità di relazione e di cura.
Per fare gli psichiatri è necessario amare, amare incondizionatamente.