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martedì, 14 Marzo 2023

“Nella narrazione oggi egemone, la natura relazionale della persona umana, la sua natura sociale, scompare, scompare la sua storia, scompare la parola…”, è questa una delle affermazioni che costituiscono l’incipit del libro di Marco Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui (minimum fax). Un libro tanto completo di informazioni su psichiatrie, psicoterapie, psicologie, servizi, disturbi mentali “recenti” e antichi, da porsi quasi come un “manuale”.

Un manuale naturalmente ricco di riflessioni, analisi, prese di posizione tra le psichiatrie ormai antiche e le visioni psico-analitiche, tra le psichiatrie che si vogliono moderne e la gamma infinita delle scuole psicoterapeutiche. In questa selva di ordini di discorso, di notizie, di parole che vogliono tendere a costruire certezze la presenza del soggetto, della storia, delle relazioni, diventa una ricerca costante e non sempre facile. Da un dettagliato repertorio delle scuole psicoterapeutiche a un tentativo lodevole di attraversare servizi e gruppi di lavoro nelle differenti regioni che continuano a tenere la rotta della “rivoluzione basagliana”, fedeli critici a una originaria scelta di campo, il libro diventa prezioso.

La scrittura di Marco Rovelli, attraversando tutti questi ordini di discorso, non si sottrae a una precisa scelta di campo, che non trascura in nessun momento la critica a quella cultura e a quelle pratiche ancora purtroppo presenti se non egemoni nel “vedere la malattia e non il malato”: la malattia, la clinica, la diagnosi, il rischio, la pericolosità al primo posto. E rendere visibili i dispositivi organizzativi che conseguono a quella scelta: ospedali, ricoveri, modalità di contenzione, ricoveri coatti che privano di diritto, di libertà, di dignità.

Colgo nel libro una costante attenzione alle conseguenze del mancato cambiamento che rendono tanti luoghi della cura e tanti discorsi sulla cura incompatibili con l’assetto di una moderna democrazia. Ancora più ricche di spunti di riflessione le parti del libro che mettono in guardia, con molto rigore ma anche con molta passione, dal rischio, dall’immanenza, della medicalizzazione (della psicologizzazione).

Come se ogni respiro, ogni sguardo, ogni movimento, per essere in qualche modo visto, ascoltato, partecipato, dovesse trovare non soltanto una diagnosi quanto una quantità di parole colte e appropriate che vanno a rinchiudere quei brandelli di vita in visioni di malattia, di incapacità, di permanente sofferenza. Di oggetti infine di cui si approprierà, in un modo o nell’altro, lo psicologo, lo psicoanalista, lo psichiatra, impoverendo e legando, talvolta in un discorso senza fine, le persone che vanno perdendo la loro soggettività. Che vanno a radicare sempre più la loro individualità nella impossibilità di riconoscersi in un collettivo, in un insieme. Come se le forme dell’ascolto, e degli ascolti professionali, attentassero continuamente alla vitale necessità di esserci. Di essere con l’altro.