Difesa sociale e cura della persona nella legislazione manicomiale italiana 1904-1978
di Ernesto De Cristofaro, Università degli Studi di Catania
La scena originaria entro cui si suole collocare storicamente la nascita del manicomio si svolge nel 1793 presso l’ospedale – già orfanotrofio, poi prigione – di Bicêtre, situato nei sobborghi meridionali di Parigi, all’interno del quale erano all’epoca ricoverati circa duecento malati di mente. Qui lo psichiatra Philippe Pinel decide di togliere le catene ai soggetti reclusi nelle segrete. Nel corso di un’ispezione di Georges Couthon (giacobino, deputato alla Convenzione nazionale), venuto a sincerarsi che tra costoro non si nascondessero sospetti e coperto di invettive ed espressioni volgari, Pinel si sentì da costui apostrofare così: «Perbacco, cittadino, sei pazzo anche tu a voler liberare dalle catene simili animali?». Una domanda alla quale egli, con calma, rispose: «Cittadino, sono convinto che questi alienati sono così intrattabili proprio perché vengono privati d’aria e di libertà». La “liberazione” operata da Pinel non è, tuttavia, immune da ambiguità. La legge francese sull’organizzazione giudiziaria del 16-24 agosto 1790 aveva reso l’internamento una misura di polizia, conferendo all’autorità municipale l’incarico di contrastare gli avvenimenti incresciosi provocati dai pazzi furiosi lasciati in libertà. Essa aveva anche previsto la creazione di grandi ospedali destinati agli insensati. Si voleva che i folli, nella misura in cui considerati nocivi e pericolosi per la società, vi restassero custoditi sino al momento in cui, guariti, non fossero stati in grado di «godere della loro libertà». Si trattava, dunque, di neutralizzare la follia attraverso condizioni di diagnosi e terapia della medesima generate dalla costituzione di un campo asilare puro, chiuso e separato dal resto della società. Condizioni a partire dalle quali la follia poteva essere analizzata e dissezionata con tutto il rigore conoscitivo necessario, distanziandosi da essa per scongiurare il rischio dell’indiscernibilità di tutti quei suoi aspetti che si mescolano continuamente alla non follia e che, talora, generano le maschere equivoche della simulazione del disagio mentale. Sicché quello che fa Pinel, ovvero togliere le catene agli alienati delle segrete, significa «introdurli nel dominio di una libertà che sarà anche quello di una verificazione, significa lasciarli apparire in un’oggettività che non sarà più velata nelle persecuzioni e nei conseguenti furori». È possibile affermare che a queste condizioni il manicomio non rappresenta soltanto il luogo per effettuare una cura e osservare il decorso della malattia «ma costituisce la cura stessa». La costruzione di questo campo di osservazione, trasparente e asettico, innesta nelle pratiche della medicina mentale la sensibilità generale che le idee dell’illuminismo hanno diffuso e segna il trionfo della fede nella ragione. Il manicomio con- sente un incasellamento razionale del folle e dei vaneggiamenti che lo abitano. Secondo Franco Basaglia, «Una società, per essere civile, deve essere razionale. […] È così che nasce l’istituzione razionale del manicomio che racchiude l’irrazionalità. Una persona folle diventa nuovamente razionale nel momento in cui è internata in manicomio». Ma, oltre l’assorbimento ideologico dell’irrazionalità della follia nella razionalità del manicomio, la psichiatria nasce entro un orizzonte capillarmente ordinativo. La società genera problemi e disadattamento nei campi più diversi – famiglia, lavoro, luoghi della socialità – ed esige, dunque, sedi di ricomposizione delle sue tensioni e dei suoi conflitti. Il manicomio concorre a svolgere questo com- pito di igiene pubblica e gli psichiatri sono «funzionari dell’ordine sociale». Entro questa latitudine è possibile fissare la seconda scena fondativa inerente la sua nascita: la legge francese sugli alienati del 30 giugno 1838.