di Korallina
Nell’appassionato monologo teatrale di Renato Sarti “Muri prima e dopo Basaglia”, che racconta la storia di Mariuccia Giacomini infermiera psichiatrica a Trieste prima, durante e dopo Basaglia, c’è una battuta. Tre parole tre, che dopo essere passate per la voce e il corpo dell’attrice Giulia Lazzarini – «Giulia o della semplicità o della misura o della grazia o della felicità» come Strehler l’ha descritta – si ha paura persino a ricopiarle. Non conoscendo altro modo per comunicare la battuta a chi non era al Mittelfest di Cividale quella sera, la trascrivo come sta e giace sul copione.
«C’è da curare l’anima. Tutto quello che la circonda… intorno».
Non so, giuro che non ho la più pallida idea di che cosa significhi la parola «anima». Salvo che è una parola grossa, come una montagna. E antica. Come le montagne antica, direbbe un signor comunicatore di nome Gandhi. Molto più vicino a me, nella lingua che era di mia madre esiste un’espressione che forse può aiutarmi. Due parole che pur facendomi un po’ paura mi sono sempre piaciute. Suonano così: «dùševna bòlest». Nella lingua di mio padre si traducono, alla lettera, con «malattia dell’anima». Indicando ciò che nel medesimo lessico viene chiamato malattia della mente o mentale.
Ho sempre pensato che «dùševna bòlest» ovvero «malattia dell’anima» sia termine più appropriato di «malattia mentale». Una soluzione linguistica che oso dire più felice, a chi crede che siamo ciò che parliamo. Non saprei spiegare come io sia giunta a questa conclusione. Né me lo ero mai chiesta fino a ora.
Anima e malattia. Se la parola anima era e rimane misteriosa (malgrado le mie scrupolose investigazioni private, a partire dalla prima elementare), la parola malattia lo è forse un po’ meno. O piuttosto in maniera differente.
Come la maggior parte della gente, incontrai la malattia molto presto. Il morbillo, gli orecchioni, le tonsille, l’orticaria. Ma non fanno testo, le ricordo a malapena, dai racconti di chi correva in astanteria, la figlia urlante in braccio che non mollava il suo cono alla fragola assassina.
Ricordo invece la mattina in cui zio Biba, il fratello della mia nonna materna, era morto. Un cancro (questa parola sì che non la si dimentica) al cervello che se lo portò via nel tempo di un lancio di dadi a Monopoli. Ricordo che quella mattina qualcuno, la mamma o forse la nonna, mi spedì nello sgabuzzino a lustrare con spazzola e pasta Guttalin di contrabbando le scarpe del morto. Con quanta professionalità portai a termine la missione, con quale orgoglio consegnai le scarpe – le unghie nere di patina – a zia Mara, la moglie del morto. Che inforcando le lenti a raggi X le girò e rigirò tra le dita vitiliginose manco cercasse le prove che erano truccate. Non si sa mai che cosa può nascondersi sotto un paio di suole di vero cuoio Made in Italy pagate a peso di marchi tedeschi.
Con quanta ansia aspettai l’esito dell’ispezione: «Come nuove». Pronte per far fare bella figura al morto. Lavato, pettinato, profumato e vestito a festa, nella vita si va una sola volta al proprio funerale.
E ricordo lo schiocco delle mie labbra sulla fronte sudaticcia dello zio, la sera prima, e il rimbombo che produsse nel camerone dell’ospedale facendo sobbalzare dal letto gli altri malati, in una specie di passo di danza goffo e sconclusionato, ad aprire l’ultimo walzer dopo di che buio in sala. Debuttanti in gessato di flanella e borsette di pipì dorata in fila per l’altro mondo.
E come lo zio afferrò le mie mani per sigillarle con un bacio che non voleva terminare.
Ricordo come tutto questo mi fu naturale, l’odore del camerone nelle narici, la saliva del malato sui polpastrelli, il suo sudore sulle labbra, la polvere sulle scarpe del morto, le unghie unte di patina nera, il muco nel fazzoletto bianco che scorticava il naso di zia Mara e la crudezza con cui la nonna mi disse che sua cognata non aveva preso un’altra volta il raffreddore. Piangeva, perché lo zio era morto. E che anch’io, se mi veniva, avevo il permesso di piangere. Non mi avrebbe punita. Né mi punì qualche ora dopo, a tavola, quando io e mio fratello rovesciammo la zuppa di pesce servita col servizio buono, non riuscendo a trattenere le risate perché zio Biba faceva rima con «riba», pesce, e la sua ultima volontà era di essere sparso, cenere, nel mare. Ancora oggi quando ci torna in mente quell’uomo alto, atletico con un buco di proiettile nella spalla dove un pomeriggio d’estate, mentre ronfava sul balcone, mio fratello infilò una bilia, ancora oggi per noi lui è zio Riba.
Giocare, piangere a un funerale, ridere, ammalarsi, guarire, morire, tutto questo era la vita ed eravamo noi che la vivevamo. Così come veniva, senza pensare. Forse «anima» vuole dire questo. Quell’aria che respiro senza pensare. E che il mio corpo veste come quel vecchio paio di jeans che mi porterò nella tomba.
Ecco perché preferisco sentirmi «sana di anima» piuttosto che «sana di mente». Ecco perché vorrei chiedervi, a voi che talvolta vi prendete cura della mia mente, di non dimenticare che se la mia mente non sta bene, è perché non sta bene la sua anima.
Lo so, lo so che è una parola grossa. Ma se bastasse la parola, quella sera a teatro non avrei consumato le mani in una rivolta di applausi che non voleva smorzarsi.
1 Comment
L’anima…
che cos’è l’anima?
prima graffia il cuore poi colora i pensieri.
E’lo spazio interiore dove nasce l’orizzonte,
la mia culla tiepida per riscaldare il freddo del mondo,
L’anima è il mio nido
da cui librarmi in piccoli-lunghi voli
per poi tornare, a casa.