Una legge è lo strumento adatto, di questi tempi, per attivare una politica nazionale di salute mentale? Prima di entrare nel merito del progetto n.2233 depositato alla Camera dei deputati il 27 marzo 2014 e presentato dal Partito democratico lo scorso 7 aprile, è questa la domanda di fondo a cui è necessario rispondere. Non c’è dubbio infatti che interventi incisivi siano necessari per interrompere la spirale in discesa che i servizi di salute mentale hanno imboccato da tempo per molte e diverse ragioni, ma una legge nazionale è lo strumento giusto?Difficile crederci: di “nazionale” nel servizio sanitario è rimasto ormai solo il nome, e anzi spesso neppure quello dal momento che i provvedimenti, le informazioni, le campagne in diverse regioni, o forse in tutte, sono ormai siglate SSR, servizio sanitario regionale. E nei vari SSR la salute mentale fa quasi sempre la parte della serva, con assetti organizzativi spesso disegnati a misura dei piccoli poteri locali, con esperienze positive a cui sono generalmente indifferenti coloro che fanno le politiche, con l’assenza assoluta, da parte degli ultimi governi nazionali, di qualsiasi gesto di coordinamento, armonizzazione, valutazione e anche raccolta di informazioni sui servizi e le loro performance. La cattiva riforma del Titolo V della Costituzione, se non è causa di questo stato di cose certo ne è complice in quanto ha creato l’autarchia attuale dei SSR: per quali ragioni essi dovrebbero adesso obbedire a una legge che interviene sul loro terreno senza averne più il potere? Certo, ai governi nazionali resta l’arma finale del commissariamento, ma questo strumento può servire a bloccare azioni ma non a innescare processi di valutazione e trasformazione degli assetti, che non sono solo quelli finanziari. A cosa serve dunque una legge nuova in un quadro normativo come questo?
Ma forse il ddl 2233 vuole essere, in realtà, solo una provocazione al dibattito. Questo lo fa pensare il fatto che il movimento “Le parole ritrovate”, che ha ispirato questo provvedimento, abbia deciso fin dall’inizio di chiamare questo progetto la “181”, riproponendo lo slogan con cui quasi trent’anni fa presentavamo, nei tanti dibattiti che l’avevano preceduto e seguito, il disegno di legge di Franca Ongaro Basaglia, allora senatrice del gruppo Sinistra Indipendente che l’aveva firmato con lei nel 1987. La “181” era una provocazione, lo dicevamo esplicitamente, perché non serviva un’altra legge ma un progetto obiettivo, che finalmente arrivò nel 1989, ministro della sanità Carlo Donat Cattin, che dal ddl Ongaro Basaglia prese non pochi spunti. Forse è questa la strada che si vuol seguire con questa seconda “181”, ma attenzione, quelli erano altri tempi, le regioni erano meno autarchiche di oggi e in parlamento c’erano all’epoca almeno una dozzina di ddl che, per diverse strade, intendevano tutti far fuori la “180”. Fare un ddl allora era una strategia per entrare nel gioco parlamentare e per far vedere quali servizi avrebbero dovuto fare le regioni, che peraltro in gran parte lo sapevano già essendosi date leggi regionali spesso buone. Oggi, in un parlamento in cui mi pare ci sia solo un altro ddl in tema di salute mentale, il rischio che si corre con un nuovo ddl è quello di richiamare in gioco le lobbies e i personaggi che in questi anni non hanno mai smesso di proporre, e di realizzare a livello locale, una psichiatria che adotta contenzione e segregazione mentre cerca di invadere sempre più con le sue molecole l’esperienza umana e la vita. E’ certo che queste lobbies e personaggi non si lasceranno sfuggire l’occasione per dire la loro in parlamento, fuori e dentro il partito democratico. Potrebbe finire con il solito compromesso al ribasso a cui i tempi recenti ci hanno abituato, compromesso che si pagherebbe alla fine con i diritti personali e le garanzie, oltre che con concessioni ulteriori ai profitti privati.
Ben venga quindi la discussione che da tanto tempo è necessaria, ma questa discussione deve essere innanzi tutto su come si governa, negli scenari attuali, il cambiamento non solo nelle politiche della salute mentale ma dell’intero sistema sanitario, per non rischiare di tornare indietro pensando invece di andare avanti.
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Leggendo Gisella , nonostante più volte abbia pensato alla necessità di una legge che sanzioni l’abbandono delle persone, la sottrazione di risorse, l’utilizzo delle risorse dedicate alla “cura” delle persone con disturbo mentale ( come del resto delle persone fragili tout court) ai fini di tornaconti personali – economici, di carriera, accademici etc -, oggi mi chiedo su cosa si dovrebbe legiferare e cosa non contiene la 180 che impedisce buone pratiche?
Forse occorrerebbe normare il significato della parola manicomio. ? Estenderla ad ogni forma di istituzionalizzazione fisica ,organizzativa, relazionale? ma questo potrebbe farlo l’accademia della Crusca .
Oltre a sancire che le persone con disturbo mentale vanno curate come chiunque abbia problemi di salute ( già espletato dalla 180) si dovrebbe decretare che ne è vietata la discriminazione anche da parte dei servizi sanitari e sociali? ma credo che questo tipo di discriminazione è già punibile.
Sancire che non si possono legare le persone neanche nei luoghi di cura? Ma questo non è già un reato ?
Si può decretare per legge cosa è cura e come si organizzano i servizi, privandoli della necessaria temporalità ?
Probabilmente quello che manca è la riformulazione di un Progetto Obiettivo Nazionale formulato a partire dalla Relazione finale del febbraio del 2013 della Commissione parlamentare d’inchiesta sul SSN, come suggerisce Peppe dell’Acqua.
In effetti se un impulso innovativo c’è stato in passato, se numerose esperienze soddisfacenti negli anni si sono potute fare è stato grazie al Progetto Obiettivo .
Questa volta andrebbe imposto il recepimento reale da parte di tutte le Regioni.
Antonella Albero