[articolo uscito sul Piccolo]
Iniziò ad applicare i suoi studi nel 1936 a Lisbona trapanando i crani dei suoi pazienti dalle “menti disordinate” e iniettandovi alcol all’interno. Si chiamava Egas Moniz e per aver inventato la lobotomia fu insignito, nel 1949, del Premio Nobel per la Medicina. Oggi, 71 anni dopo, al prestigioso riconoscimento viene avanzata la candidatura di chi disse per sempre no all’annientamento delle persone affette da disturbo mentale ma fu invece artefice della rivoluzione “gentile” in psichiatria: lanciata da Trieste, la Candidatura al Premio Nobel per la Pace a Franco Basaglia e al suo gruppo storico di lavoro viaggia ormai all’ultimo mese del suo percorso. A ottobre, infatti, saranno resi noti i nomi dei vincitori, anche se in città se ne sa ancora poco, considerati i vincoli di riservatezza e non pubblicizzazione imposti.
Formalizzato nel 2019, l’International Community Panel Franco Basaglia for the Nobel Peace Prize convoglia diverse associazioni, tra cui la Scuola Internazionale Franca e Franco Basaglia, la Conferenza Permanente per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia (CoPerSaMM) e la Fondazione Basaglia. Bizzarro che ad avanzare il progetto non sia stato uno psichiatra ma qualcuno che per i tanti cortocircuiti della vita si è trovato a vivere le conseguenze di una contenzione simile. Ideatore e promotore appassionato è infatti Gianni Peteani, testimone di seconda generazione della deportazione e dell’Olocausto in quanto figlio di Ondina Peteani, prima staffetta partigiana d’Italia e deportata prima a Auschwitz poi a Ravensbrück da dove riuscì a fuggire per tornare a Trieste.
«È stato Peppe Dell’Acqua ad aiutare e a risollevare mia madre tra il ’75 e il ’76 – spiega Peteani – quando era precipitata in una fase di depressione acuta simile a quella di Primo Levi e di tanti altri deportati, con mire autodistruttive e suicide. Perciò ho vissuto da vicino il metodo basagliano, completamente differente a quello diffuso fino a quel momento: farmacologicamente nullo ma con una grande apertura mentale, un possente sostegno morale, un dialogo continuo, un’humanitas aperta, che ha visto ad esempio la pronta reintroduzione di mia mamma nel circuito lavorativo. Dell’Acqua è stato colui che l’ha recuperata ed è stato fisiologico rivolgermi a lui oggi per iniziare la creazione di un comitato d’indirizzo».
«É un percorso iniziato sette anni fa – racconta – ma due importanti conferenze di psichiatria tenutesi a Trieste, quella mondiale del 2018 e la seconda internazionale dello scorso anno alla presenza della direttrice dell’Oms Dévora Kestel, hanno conferito sempre più slancio alla proposta».
Era stato coinvolto anche Sergio Zavoli. E poi, Roberto Mezzina «il vero tramite per la crescita del progetto», Tatiana e Andra Bucci (deportate bambine a Auschwitz e tenute vive come cavie per esperimenti), Maurizio Fermeglia, Erio Tosatti, Sandro Scandolo, Mario Reali, Mauro Barberis, Giovanni Fraziano, lo stesso Stefano Fantoni protagonista nei giorni scorsi del successo di Esof.
«È stata una svolta epocale – continua – che ha avuto effetti dirompenti a livello della società tutta; salute e malattia, soggettività, libertà individuale: tutti concetti profondamente mutati in seguito all’esperienza basagliana. Lui e i suoi hanno elaborato la svolta e la fine del sordo massacro chiamato segregazione manicomiale, antiscienza consona alle pratiche di annientamento perpetrate nei lager di sterminio nazisti. Nella loro grande intuizione han compreso quanto fosse importante l’interazione della società, la consapevolezza collettiva dell’inclusione e del supporto: è per questo che il Nobel per la Pace sarebbe un riconoscimento imprescindibile verso Basaglia e il suo staff, oltre alle associazioni e istituzioni che hanno rappresentato e rappresentano tuttora questo percorso».