di M.G. Giannichedda
In questi trent’anni che ci separano dall’estate in cui Franco Basaglia è morto, a cinquantasei anni, dopo una malattia breve e in un momento cruciale della sua vita e del suo mondo (aveva lasciato Trieste per la Regione Lazio, le leggi psichiatrica e sanitaria erano state approvate da appena due anni) si può ben dire che si sia aperto e chiuso un ciclo. Le strutture dell’epoca sono state profondamente cambiate da queste due riforme, e questo è vero soprattutto per la psichiatria, che nel 1980 era centrata sugli oltre sessantamila posti letto dei manicomi, oggi chiusi. Il cambiamento organizzativo che si è compiuto nelle strutture non è stato però accompagnato – lo si è detto molto in questi anni – dalla trasformazione in senso democratico della loro funzione e delle culture degli operatori; o perlomeno questa trasformazione è stata insufficiente, concentrata in alcuni luoghi, bloccata sulla scala locale e fondata sull’impegno quasi militante di dirigenti e operatori.
Tuttavia, tra il si può dimostrato da queste esperienze locali, il si deve della riforma in piedi da più di trent’anni, e il mondo dei cittadini utenti si è creata una sorta di circolo virtuoso, che ha generato aspettative di diritti e speranze sempre più riferite alla figura di Franco Basaglia: gli ascolti record raggiunti lo scorso febbraio dal film girato per la televisione C’era una volta la città dei matti, basato sulla sua vita e la sua impresa, testimoniano di questa popolarità, oltre che della qualità del film e del fascino della vicenda di Trieste. Sono tanti i modi in cui si esprime questa domanda di diritti e di speranze, rovesciando i punti di vista precedenti al lavoro di Basaglia, e si traducono in associazioni e cooperative di familiari, utenti, operatori che fanno imprese sociali, abitazioni assistite, iniziative di cultura, sport, viaggi che spesso trovano spazio nei media e mettono in scena una follia ben lontana da quella «assenza d’opera» di cui scriveva Michel Foucault seguendo la nascita del manicomio. Inoltre, non poca importanza hanno avuto le denunce degli abusi tutt’ora commessi nei servizi psichiatrici pubblici e privati: l’uso del trattamento obbligatorio come misura di sicurezza, la segregazione, la privazione degli oggetti personali e la restrizione nelle comunicazioni, fino alla contenzione fisica protratta tanto da causare la morte. Sono noti gli ultimi due casi oggetto di inchieste giudiziarie ancora in corso: quello di Giuseppe Casu, morto il 22 giugno del 2006 nel servizio psichiatrico del Ss. Trinità di Cagliari dopo sette giorni di contenzione ininterrotta, e quello di Francesco Mastrogiovanni, morto il 31 luglio 2009 nel servizio psichiatrico di Vallo della Lucania dopo tre giorni di contenzione documentata dalle telecamere poste a paradossale sicurezza dei ricoverati. Entrambe queste vicende sono venute alla luce perché i familiari, sostenuti da una parte degli operatori, si sono rifiutati di subire le morti dei loro congiunti come esito infausto della malattia, convinti che sia «possibile assistere la persona folle in un altro modo», come diceva Basaglia in una conferenza del 1979. Il personaggio chiave di queste vicende non è più il malato «non collaborativo», come ora la psichiatria usa dire, ma il medico che non sa o non vuole accostarsi a lui con competenza e rispetto, diventando così una figura pericolosa per coloro che hanno la sventura di trovarsi in suo potere. Forse il pensiero e la prassi di Basaglia hanno fatto scuola più tra i cittadini che tra gli operatori: ricomincino loro, dunque, dal suo esempio.
(da Il manifesto del 29.08.2010)