di Enrico di Croce
Tempo fa ho seguito su YouTube la lezione di un celebre filosofo il quale, citando Aristotele, spiegava che gli obiettivi qualificano le azioni. Un concetto apparentemente banale, ma che ho trovato molto prezioso per chiarirmi le idee su uno dei temi più controversi del mio lavoro di psichiatra: il rapporto tra cura e controllo della pericolosità. Argomento di grande interesse pratico, che ha assunto un’enorme risonanza emotiva dopo il brutale assassinio della collega Barbara Capovani.
L’autore di quella lezione (Emanuele Severino) per spiegarsi faceva l’esempio della differenza che passa fra un medico che lavora con l’obiettivo di guadagnare denaro e un medico che lavora per curare i pazienti e, come conseguenza delle sue azioni, guadagna denaro. Anche se le azioni, all’apparenza, sono le medesime, in realtà sono completamente diverse.
Allo stesso modo è molto diverso se uno psichiatra agisce con l’obiettivo di prevenire atti violenti, oppure con l’obiettivo di curare, sapendo che, come conseguenza della cura, potrebbe ridursi la probabilità che si compiano atti violenti.
A me sembra che l’annoso dibattito sulla psichiatria, rinfocolato dal recente, orribile episodio di cronaca, ruoti soprattutto intorno a questo punto. Era appena stata approvata la legge 180, quasi mezzo secolo fa, e già si udivano le voci di psichiatri scandalizzati perché la riforma aveva inteso “negare per motivi ideologici la violenza criminale nella malattia mentale” (come strillava un direttore di Dsm, ancora il 1° maggio scorso, su un grande quotidiano nazionale).
Ebbene credo si tratti di un colossale fraintendimento, per essere benevoli. Il punto non è mai stato negare la possibilità della violenza dei pazienti. Ciò che il movimento di riforma ha cercato di rivendicare è il capovolgimento degli obiettivi: affermare il primato del mandato di cura su quello di controllo, partendo dall’esperienza dei manicomi la quale ha dimostrato che, mettendo al primo posto la prevenzione della pericolosità, si rende sostanzialmente impossibile ogni azione terapeutica, inchiodando psichiatri e infermieri al ruolo di controllori-carcerieri.
A distanza di tanto tempo mi pare che la questione si riproponga più o meno negli stessi termini. Nel corso degli ultimi due decenni è tornata prepotente la richiesta alla psichiatria di assumere in toto la delega al controllo della pericolosità dei “folli”, affermandola come il primo dei suoi obiettivi istituzionali.
La psichiatria italiana ha risposto con ambivalenza, mugugnando, provando a fare dei distinguo, ma in sostanza ha accettato quella delega, sostenuta da pressioni sociali molto forti. Credo lo dimostrino numerosi segnali indiretti, come l’inarrestabile successo dei vari corsi di specializzazione in psichiatria-forense, criminologia, “criminal profiling” e simili, il fiorire delle “Unità forensi” in tutti i Dipartimenti di Salute Mentale, spesso trampolino per brillanti carriere. Senza contare che gli psichiatri “esperti” in crimini sono gli unici a godere di una narrazione pubblica positiva, nelle fiction più popolari e sui grandi media che li interpellano regolarmente, quindi gli unici a mantenere un minimo di credito sociale.
Da anni queste dinamiche si sono concretizzate in alcune sentenze della Magistratura che pesano come macigni: a partire da quella tristemente nota che nel 2007 ha condannato uno psichiatra per omicidio colposo a seguito dell’omicidio compiuto da un suo paziente. Con ogni evidenza il principio affermato dalla sentenza è che pericolosità e patologia psichiatrica non sono fenomeni distinti; che la posizione di garanzia dello psichiatra, il suo dovere istituzionale e giuridico, non consiste solo nell’aiutare il paziente a stare meglio ma, soprattutto, nell’impedire che faccia del male agli altri o a sè stesso, essendo la propensione alla violenza indistinguibile della sua patologia.
Il presupposto culturale e giuridico decisivo è il concetto di non imputabilità, il vero peccato originale della psichiatria, che nessuna riforma è mai riuscita a scalfire. Al paziente dichiarato incapace di intendere e volere, quindi non responsabile delle sue azioni, corrisponde lo psichiatra-controllore, che assume di fatto la responsabilità delle azioni del paziente.
Viene in questo modo rimossa la lezione più importante del manicomio: dare priorità al controllo della pericolosità distrugge ogni possibilità di relazione d’aiuto e aumenta, non riduce, il rischio di violenza. Ci sono moltissimi esempi che lo dimostrano. Quando i servizi psichiatrici sono forzati a compiere scelte diverse da quelle che compirebbero se fossero spinti da sole motivazioni orientate alla funzione di cura, rischiano di perdere ogni credibilità come figure terapeutiche e diventano facili capri espiatori. Agire da braccio armato della legge impedisce, spesso in modo irreversibile, di assumere il ruolo terzo di intermediari fra le logiche della follia e quelle della realtà, in cui risiede la sostanza della funzione di cura.
Le situazioni in cui si creano pressioni esterne (della Magistratura, delle Forze dell’ordine, degli Enti locali) a intervenire per evitare una “tragedia annunciata”, e non per aiutare una persona che ha disperatamente bisogno, sono quelle in cui la tragedia ha la massima probabilità di verificarsi.
Torino, 3 maggio 2023