Parliamo spesso di “Epoché” con Peppe Dell’Acqua un concetto, un modo di stare con l’altro che abbiamo smesso di praticare. Un concetto della fenomenologia, (Tra parentesi), che ha permesso di mettere da parte la malattia mentale e far emergere la persona. Un concetto che dobbiamo rimettere in circolo e che rivive nel racconto di una storia che ci riguarda e che parla di Cura.

 

Basaglia raccontato a teatro 

Il Direttore del  Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Paolo Valerio, al fine di fare omaggio a 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐁𝐚𝐬𝐚𝐠𝐥𝐢𝐚, nel centenario della sua nascita (1924-2024), riprende la fortunata produzione. 

Era l’autunno del 2017 quando il direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Franco Però, ha proposto a Massimo Cirri, a Erika Rossi e a me di fare qualcosa in occasione dei 40 anni della legge 180. Ho pensato che scherzasse. Per molti mesi ho tenuto lontano anche il pensiero di quell’improbabile avventura. Erika e Massimo, invece, erano entusiasti. Durante l’estate abbiamo cominciato a pensare a cosa e come raccontare. 

Non poteva essere soltanto l’orrore del manicomio l’oggetto del nostro narrare. Dovevamo cercare di andare alle radici della “rivoluzione”: Basaglia che restituisce diritto, dignità, soggettività. Bisognava raccontare la vera storia. L’ingresso di Basaglia a Gorizia l’inizio del canovaccio.

Bisognava cominciare da quel 16 novembre del ’61. Franco Basaglia entra come direttore nel manicomio di Gorizia, ai confini del mondo, nel cuore della guerra fredda. 

Scopre un mondo, di sofferenza, di violenza, di annientamento fino ad allora sconosciuto. Gli uomini e le donne non ci sono più ridotti a internati senza volto, senza storia. 

È impensabile in quel luogo poter incontrare l’altro. Dovrà mettere in un angolo la diagnosi e la maschera pesante dell’internamento. Metterà tra parentesi la malattia. Gli internati cominciano così ad avere un nome, una storia singolare, una passione. Dovrà interrogarsi, mentre attraversa sconcertato quel desolante paesaggio, sulla natura della malattia mentale, sulla disciplina psichiatrica e le sue radici quanto mai fragili e nebulose che tuttavia esercita un potere smisurato che opprime e nega l’esistenza a milioni di persone. 

La presenza delle persone, al contrario non può che far crescere l’urgenza del cambiamento: si aprono le porte, si aboliscono tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. 

Le grandi imprese hanno un inizio modesto, minimalista: incontrare e ascoltare le persone e riconoscere i loro bisogni (e i loro desideri!). Giorno dopo giorno azioni minime: muri ridipinti, incontri, parole. In quel deserto immobile e squallido ogni gesto irrituale, ogni piccola azione che contribuisce a scalfire almeno un po’ la superficie della piattezza istituzionale sembrava già una riforma. 

Divenne questa la traccia su cui lavorare. In scena una panchina rossa, Massimo e io a conversare, alle spalle le immagini degli uomini e delle donne che faticosamente procedono verso la loro liberazione. In questo la regia di Erika è stata vincente.

Come si capisce è stato per me un andare indietro. Le storie che ogni sera raccontavamo muovevano  passioni, interrogativi, memoria di sconfitte brucianti e  conquiste gioiose. Ci sentivamo, noi ragazzi venuti da mezz’Italia, nel cuore di una storia impensabile che accadeva davanti ai nostri occhi. Contribuire allo smontamento della grande e secolare istituzione manicomiale era come vivere nell’urgenza di un capovolgimento epocale che non poteva fare a meno della nostra passione. Affrontavamo rischi, amori, conflitti nella vertigine di orizzonti sconosciuti. 

Durante le numerose repliche dello spettacolo, più di cinquanta, 5000 spettatori, non c’è stata una sola volta che,  in alcuni passaggi cruciali, non abbia avvertito un’emozione tanto profonda da non riuscire a dominarmi. Le parole venivano fuori svelando i sentimenti che stavo provando. Ogni sera dovevo prendere il mio rassicurante confettino di trinitrina con un’angina sempre in agguato. 

Non potevo non riandare agli anni dell’università e vivere con stupore la presenza attenta delle persone che senti palpitare nel buio della sala. 

Ogni sera a teatro, con Massimo, ho raccontato di me e delle cose meravigliose e aspre che accadevano intorno. 

Ci rendevamo conto che raccontare delle origini, della parentesi e della frattura insanabile che Basaglia ha provocato nel corpo della psichiatria era il rischio di non essere compresi e la certezza di un vergognoso fallimento, diceva Massimo per farmi coraggio.

Il successo è stato ancora più inaspettato. Ogni sera a Trieste e poi a Milano, Torino, Ferrara, Udine, Codroipo, Cervignano, Modena, Forlì, Lecco tutto esaurito! Avvertivamo nel buio della sala le emozioni degli spettatori. Credo che a Trieste come negli altri teatri, ma a Trieste soprattutto, il mio stupore è stato grande. Il nostro narrare faceva sì che le persone, i triestini, potessero finalmente appropriarsi di una storia che hanno vissuto e di un epocale cambiamento che hanno contribuito a realizzare. Un desiderio di appartenere. 

E oggi nel centenario della nascita di Franco Basaglia, il teatro stabile ci chiede di tornare in scena,

Cosa di meglio potevo attendermi! 

Peppe Dell’Acqua