Alcuni anni fa pensai di collaborare, nel dopolavoro, come medico volontario, con l’associazione dei Medici contro la tortura.
Andai a parlare col presidente dell’associazione, un anziano medico in pensione, mi presentai, gli spiegai che ero uno psichiatra che lavorava in un SPDC. Uno di quei moderni succedanei del manicomio?, mi chiese lui a bruciapelo. Annuii, scoperto. Uno di quei reparti che, pur collocati in un ospedale generale, pur avendo per legge le stesse caratteristiche di ogni altro reparto ospedaliero, ha le porte sempre chiuse?, mi chiese ancora. Annuii, imbarazzato. Ma nel tuo reparto legano la gente?, proseguì l’interrogatorio, con un sorriso beffardo. Per la precisione, gli risposi senza reticenza, viene legata, più o meno, una persona su dieci, una ogni quattro di quelle ricoverate in TSO. TSO sta per … ?, mi chiese ancora, ma tanto sapevo che lo sapeva. TSO sta per Trattamento Sanitario Obbligatorio, gli risposi, ma mi sento di dire che la vera interpretazione dell’acronimo è Trattenimento Sanitario Obbligatorio.
Non so cosa ne pensi tu, mi disse il medico anziano, con quell’aria da tenete Colombo, da finto tonto che poi ti frega, non so cosa ne pensi, ma la mia idea, rispetto al legare i malati di mente, è che questa pratica, che pure viene considerata un atto medico, sia in realtà, non molto diversa dalla tortura, tu non trovi?
Ecco, avevo capito il suggerimento di questo anziano medico che somigliava al tenente Colombo: mi trovavo di fronte a una vera aporia, a un dilemma paradossale che avrebbe potuto mandarmi al manicomio. In altre parole, se avessi iniziato a lavorare nel suo piccolo ambulatorio per le vittime di tortura, sarei subito entrato in una sorta di conflitto d’interessi (e lo so che non è l’espressione più felice). Nel senso che rischiavo, un giorno, di vedermi arrivare in quell’ambulatorio una persona proveniente non dal Rwanda, o da Guantanamo, o da un altro posto del genere, no, ma proveniente proprio dal SPDC dove, qualche ora prima, avevo smontato. Va bene che io non avevo questa passione per il legare, ma ero dentro la contraddizione, ero uno psichiatra di un SPDC chiuso, dove si faceva una cosa simile alla tortura, quindi ero complice dei torturatori, e perciò, come avevo potuto pensare di essere anche terapeuta di una vittima della tortura?
A questo punto, qualcuno tra voi è già pronto a confutare questa mia asserzione. Ma io per primo lo so che la tortura è qualcosa di diverso da un ricovero psichiatrico, che la tortura è un trattamento sistematico, intenzionale, con ben altri scopi. Per questo, dopo aver salutato l’anziano medico dei torturati, con la promessa di rivederci quando mi fossi chiarito le idee, pensai che dovevo approfondire, fare un confronto, per trovare gli eventuali elementi in comune tra il rapporto torturatore/torturato e il rapporto psichiatra/ricoverato.
Dite che è provocatorio tutto ciò? Lo so. Ma abbiate pazienza, e state a vedere come il rapporto tra torturato e torturatore non è, talvolta, molto diverso dal rapporto che lega il ricoverato in SPDC con lo psichiatra che lo lega al letto.
Trascriverò, in corsivo, alcune considerazioni di Françoise Sironi, una delle maggiori esperte al mondo in tema di tortura, tratte dal suo libro, Persecutori e vittime. Proverò a riformulare le sue stesse affermazioni, adattandole al mondo dell’assistenza psichiatrica.
Come si può curare chi è stato vittima di torture? Io la riformulo: come si può pensare di curare chi ha subìto un ricovero psichiatrico, magari coatto, dove è stato immobilizzato, legato, sedato, addormentato con una terapia del sonno? Come può la psichiatria curare una vittima della psichiatria? Come può lo psichiatra curare ciò che lui stesso ha prodotto?
La tortura è un’esperienza incomunicabile, avvolta da una coltre di silenzio, silenzio che riguarda sia chi la pratica sia chi la subisce. La principale fonte di informazione sulla tortura è rappresentata dalle testimonianze delle vittime. Riformulo: la coltre di silenzio che avvolge il mondo dei ricoveri psichiatrici, dei pazienti legati al letto per giorni, non può essere rotta, di solito, dalle vittime di questi trattamenti (i pazienti), che sono ridotti al silenzio, sono ormai gli sragionanti, non hanno nessun potere e alcuna ragione per farsi credere (tranne casi rarissimi: Alice Banfi, per fare un esempio, che è riuscita a pubblicare le sue avventure di donna legata nei reparti psichiatrici). La coltre di silenzio può essere rotta solo da quei pochi psichiatri o psicologi o infermieri o altri operatori dissenzienti.
La dichiarazione contro la tortura, firmata dalle Nazioni Unite nel 1975, dà la seguente definizione di tortura: “Ogni atto mediante il quale siano inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenze gravi, sia fisici sia mentali, allo scopo di ottenere da essa informazioni o una confessione, di punirla per un atto che essa o un’altra persona ha commesso o è sospettata d’aver commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre a coercizione un’altra persona”. Legare i pazienti al letto, nei SPDC e nelle case di cura o di riposo, risponde ai criteri della punizione e dell’intimidazione.
Sironi riporta anche la definizione di tortura secondo Marcello Vignar, psichiatra latinoamericano, vissuto in esilio durante la dittatura nel suo paese: Ogni comportamento intenzionale, qualunque siano i metodi utilizzati, che ha il fine di distruggere il credo e le convinzioni della vittima per privarla della struttura di identità che la definisce come persona. E’ quel che fanno i medici della mente nei reparti psichiatrici, convinti, con farmaci introdotti a forza, fasce, reclusione, di distruggere il credo erroneo, delirante, psicotico, dereistico, non conforme al pensiero regolare del mondo, per privare il paziente ricoverato della sua struttura di identità (che è psicotica).
Quanto ai metodi di tortura, vi sono, oltre al dolore, le privazioni (la privazione della mobilità, con mezzi di contenzione dolorosi) e l’isolamento. I torturatori sanno che dopo una settimana d’isolamento totale i torturati desiderano ardentemente parlare, e persino essere interrogati. Accade anche per i ricoverati.
Esistono le simulazioni delle esecuzioni. Nei reparti psichiatrici più violenti alcuni operatori adoperano la simulazione della contenzione (mostrano le fasce al malato) per indurlo all’accondiscendenza.
Il terrore viene utilizzato costringendo gli altri torturati ad assistere alla tortura di altri prigionieri. Nei reparti psichiatrici gli altri ricoverati vivono il clima di terrore determinato dall’assistere alla presa, al bloccaggio, alla contenzione del paziente agitato. E poi sono costretti a vederlo per giorni e giorni, immobilizzato, e sentire i suoi lamenti, le sue richieste di aiuto, le sue suppliche per essere sciolto.
In molte galere viene instaurato un vero e proprio codice ossessivo, con regolamenti così cavillosi che diviene impossibile ricordarli. Ciò determina l’instaurarsi di comportamenti ossessivi apparentemente incomprensibili. Nei manicomi, e nella maggior parte dei reparti psichiatrici ospedalieri, la chiusura, gli orari, i regolamenti, ancora danno luogo, soprattutto nei malati ricoverati più a lungo, a una sorta di comportamento ossessivo (anche detto sindrome da istituzione totale).
Nelle galere esiste il torturatore buono e quello cattivo. Sotto la tortura la visione del mondo si fa binaria, dicotomica, tra pulito e sporco, buono e cattivo. Nei reparti psichiatrici si alternano terapeuti cattivi che minacciano e legano e terapeuti buoni che promettono e sciolgono. Esistono due tipi di pensiero, quello delirante e sragionevole e quello sano e ragionevole. Nelle galere è prevista la medicazione non terapeutica. Psicofarmaci vengono somministrati ai detenuti delle carceri o dei centri di identificazione e di espulsione per migranti, a scopo punitivo. Questa pratica è la regola nei reparti psichiatrici. Dove, ormai, la terapia farmacologica è considerata l’unica terapia, quindi per giustificare il ricovero, e il trattamento, bisogna per forza farmacologizzare il ricoverato. Fino a legarlo, se rifiuta di prendersi i farmaci.
Affermano Tobie Nathan e Lucien Houtpaktin che, mentre infieriscono sulle vittime, i carnefici pronunciano delle “parole agenti”, che potenziano l’effetto distruttivo della tortura (“Tu non sarai mai più un uomo”). Anche i medici della mente mentre legano un ricoverato o lo obbligano a mandar giù farmaci pronunciano frasi del tipo: “Lo facciamo per il suo bene”, “E’ come se lei avesse il diabete, deve curarsi, deve prendere i farmaci”, “Deve rimanere legato fino a domani, così impara a controllarsi”, “Tenendola contenuto noi le ripristiniamo i confini del sé, o dell’io”.
La tortura è una tecnica d’inoculazione dell’intenzionalità di tutto un gruppo, tramite l’interfaccia costituita dai torturatori, in un altro gruppo, tramite l’interfaccia del torturato. Attraverso il singolo torturato si vuole colpire il gruppo di appartenenza: partito politico, setta, etnia, razza, gruppo rivoluzionario. Gruppi che in comune hanno solo di essere minoritari, di non aderire alle idee collettive condivise dalla maggioranza. Gli psichiatri, i medici della mente, rappresentano i tutori del mondo dei ragionevoli (la maggioranza), i malati di mente, o designati tali, sono assimilabili a un gruppo minoritario, quello degli sragionevoli (i paranoici, i deliranti, gli schizofrenici, gli euforici, i grandiosi, i depressi, i suicidari, i drogati, i frenastenici, i dementi) che, non potendo essere compresi, vengono silenziati e azzerati recludendoli e legandoli.
Potrei andare avanti ancora a lungo, con questo confronto, ma ciò che volevo evidenziare mi sembra chiaro, ormai. Aggiungo soltanto che non sono più tornato a fare il medico dei torturati. Non ne ho avuto il coraggio. Mi bastano quelli che vedo, ogni giorno.
(estratto da la fabbrica della cura mentale – elèuthera 2013)