di Valerio Canzian (*).
Di fronte alle modifiche approvate in Senato sulla conversione del Decreto legge 52/2014, in ordine alle modalità di chiusura e superamento degli Opg, diversi psichiatri e alcune categorie professionali della psichiatria, tra cui la SIP Società Italiana di Psichiatria, hanno manifestato il loro dissenso nel merito delle modifiche apportate approvate in Senato (vedi lettera aperta), da loro valutate negative, mentre considerate migliorative dai Comitati Stop Opg e da varie associazioni di familiari.
Desidero anch’io, in qualità di familiare, di rappresentante di Associazioni di familiari e di membro del Comitato StopOpg Lombardia, esprimere alcune riflessioni su una questione complessa, poco approfondita e foriera di suscitare trasversalmente reazioni.
Alcuni casi
A., 40 anni, è in carico a un DSM della Lombardia. Ha un deficit uditivo, un qualche ritardo mentale e difficoltà a gestire autonomamente la relazione. Va nel panico quando si trova solo nel rapporto con l’altro e per difesa agisce spintoni, schiaffi e colluttazioni. Fu così che 21 anni fa a causa di un agito come quello descritto (nessun atto efferato quindi) finì in OPG. Col passare del tempo si è compreso che l’affiancamento di un operatore o una persona di fiducia, pagata dalla famiglia, ha l’effetto di calmierare la sua paura e l’angoscia suscitata dal rapporto con l’altro, rendendo il suo comportamento adeguato. E’ evidente che occorre un’attenzione particolare per garantire ad A. la sicurezza e la fiducia necessaria per non arrivare a compromettere il legame.
Ogni sei mesi ad A. viene reiterata la pericolosità sociale perché nessuno finora si è preso la responsabilità di costruire un Piano Individuale adeguato alla sua inclusione sociale, quella possibile consona alle sue caratteristiche, verosimilmente una comunità. Dopo 21 anni A. è ancora in OPG nonostante il magistrato di sorveglianza affermi non essere l’Opg un luogo appropriato per A.
B, 25 anni, finisce in OPG perché colpisce il suo compagno di appartamento (appartamento protetto) che ha un’età doppia della sua. Questi ritorna spesso a casa ubriaco e rifiuta a B qualsiasi collaborazione nella gestione della casa. Vengono comminati a B 5 anni di misura di sicurezza in OPG che verrà successivamente diminuita fino al ritorno nel suo territorio.
C ha 25 anni, continua a entrare e uscire dal SPDC. Quando torna a casa, in assenza di un programma di accompagnamento, è lasciato in balia di se stesso e della famiglia che, da sola, non è in grado di gestirlo. C a casa facilmente si ubriaca e talvolta assume sostanze. Sta volentieri nel CRA, Comunità Riabilitativa ad Alta assistenza del DSM ma il primario del servizio ritiene la sua presenza di disturbo per gli altri ospiti e propone alla famiglia di cercargli una comunità. C non vuole andare in comunità. Gli viene proposto ancora il SPDC e lui minaccia comportamenti violenti, pronto ad assumersene la responsabilità e a pagarne il prezzo della pena.
D ha 23 anni, si è ammalato a 19 anni ed è già al suo settimo TSO. In fase di delirio minaccia comportamenti violenti contro i familiari e chiunque vada a stanarlo dal suo bunker in cui cerca rifugio, l’appartammo messo a disposizione dalla famiglia. Nessun progetto, … In attesa di un agito che giustifichi una misura di sicurezza?
E ha 50 anni. Dopo anni di porta girevole in SPDC, agiti contro i genitori, questi vengono consigliati dallo psichiatra di denunciarlo e di esagerare la gravità degli agiti nel racconto ai Carabinieri, così che possa finalmente essere portato in un OPG. E, sconterà così la sua misura di sicurezza, ma nessun progetto di accompagnamento viene impostato per lui all’uscita dall’OPG. Alcol, sostanze, tentativi di suicidio sono gli ingredienti che accompagnano il suo stato di depressione e di abbandono melanconico, fino all’ennesimo agito per il quale è ora in attesa di giudizio per eventuale ingresso in carcere.
Sono solo alcuni casi tratteggiati brevemente. La lista potrebbe continuare, ma sono sufficienti per meglio illustrare il discorso che seguirà. Sono casi diversi tra di loro, tutti di area di confine: ritardo mentale e disturbo psichico, abuso di sostante e disturbo mentale dove si evince il prevalere o comunque la presenza di una sofferenza mentale, e dove la sostanza assunta va a tappare stati di angoscia, d’abbandono, di depressione … Che la sostanza sia poi la causa della sofferenza o l’effetto è secondario ai fini della presa in carico, che comunque deve essere assunta. Solo attraverso l’ascolto del soggetto e della sua storia si può eventualmente risalire alle ragioni della dipendenza. Tutti i casi contemplano agiti violenti e sono pervasi da disturbi antisociali. Sono tutte persone in carico ai DSM della Lombardia.
A commento si può affermare che l’ingresso in Opg per tre dei casi descritti e le continue recidive per gli altri sono il risultato del reiterarsi di una mancata e appropriata presa in carico, di una mancata adozione del soggetto da parte dei rispettivi DSM. A rischio per i due che non sono ancora stati in Opg di arrivarci presto.
Due modalità di presa in cura
Gli psichiatri, per ciò che ho ascoltato recentemente in Lombardia in un interessante convegno sulla contenzione, sulla violenza, sull’apertura degli SPDC, leggerebbero i casi sopra descritti secondo due diverse modalità di approccio emerse in quel convegno che molto schematicamente cercherò di delineare:
1- a partire dalla così chiamata clinica, intesa come diagnosi che classifica le persone secondo il sintomo che le caratterizza: schizofrenia, disturbo antisociale di personalità, ritardo mentale, disturbo da uso di sostanze e comorbilità psichiatrica …. Quindi per ciascuno va trovato il luogo più adatto dove collocare la persona, in funzione della sua pericolosità sociale, capacità di stare con gli altri, volontà e capacità di adeguarsi alle offerte dei servizi. Insomma, “non c’è posto per tè nel territorio e per noi è difficile trovare un luogo appropriato alla tua patologia, non siamo noi a dovercene occupare. La tua natura è violenta e tale rimarrai, pericoloso, drogato, ritardato … Occorre trovare un posto al di fuori del DSM perché le tue caratteristiche non sono consone a un percorso riabilitativo, socializzante, a una qualche forma di integrazione nel territorio”.
Il medico in rappresentanza del dispositivo istituzionale usa qui il suo sapere, supposto tale e che non ha carattere scientifico, la diagnosi, come sapere codificato, precostituito, specialistico definendo i tempi e i luoghi della cura. Il sapere diventa in questo modo strumento di potere da cui il soggetto cercherà di difendersi, di reagire, di resistere. Cosa si nasconde dietro le resistenze ai farmaci per certi soggetti? In cosa si differenzia questa posizione dalla logica manicomiale? Quale azione preventiva viene attuata sul soggetto? I casi A-B-C-D-E riportati sopra riflettono i criteri qui descritti dove si evince che nessuna azione di prevenzione degli agiti o delle recidive viene messa in atto. Il soggetto è abbandonato a se stesso, lasciato cadere tra le maglie larghe della rete dei servizi.
2- a partire dall’accoglienza della persona, dall’ascolto della sua storia, (è questa la vera clinica, più di quanto non lo sia la classificazione descritta nel punto 1) di quello della famiglia ed eventualmente di altri se necessario, raccolgo elementi e caratteristiche della persona che per il solo fatto che trovi qualcuno che lo ascolta e lo accoglie senza giudicarlo, ritagliandogli un posto simbolico si sente riconosciuta. Questo ha un effetto calmierante dell’angoscia e del suo bisogno di difendersi dall’invasione dell’altro. Lo psichiatra diventa qui interlocutore per la persona. Il “Cosa posso fare per te?” e il mettersi insieme, psichiatra e soggetto, a cercare di costruire dei possibili percorsi o tratti di percorso senza che necessariamente siano dei luoghi chiusi, ma anche dei percorsi di accompagnamento … permette che qualcosa diventi possibile, se non altro favorisce l’attivazione di un’alleanza. Senza questa condizione preliminare nessun lavoro è possibile con uno psicotico, il cui bisogno primario è di difendersi dall’altro, vissuto sempre come invasivo.
La diagnosi e la patologia non verrà qui certo misconosciuta ma, come bene insegnò Basaglia attingendo dalla filosofia del 900 per la quale l’essere è un continuo disvelarsi, verrà sospeso il giudizio per fare emergere la persona, i suoi bisogni sociali, i suoi desideri, le sue speranze, le sue potenzialità …. creando le condizioni per iniziare a costruire un PTI, Piano di Trattamento Individuale, condiviso con la persona e la famiglia, che può anche contemplare un periodo di comunità.
Prendere in carico
Nessuna patologia o diagnosi a priori è preclusiva di possibili percorsi. Ciascuno di noi in quanto essere umano è attraversato da qualche forma di sintomo, e certamente i casi descritti sopra evidenziano delle situazioni di gravità e di gravosità, ma come tali non costituiscono un dato naturale impassibile di cambiamenti. I cambiamenti hanno certamente una qualche correlazione con la diagnosi ma per tutti vale la possibilità dell’evoluzione continua. Le neuro scienze con la scoperta della plasticità neurale in questo senso ce lo confermano. È la struttura, il servizio, a dover attivare le condizioni perché la persona metta in atto dei movimenti. Non è possibile condurre uno psicotico più in là di quanto non sia la struttura collettiva. Il soggetto affetto da un disturbo mentale non può accontentarsi di qualche farmaco e qualche buona parola, ha bisogno di sentirsi riconosciuto e compreso nella sua sofferenza, nei suoi bisogni, nei suoi desideri, nel suo bisogno fondamentale di sentire che c’è un posto singolare riservato per lui, simbolico e nella realtà. Tutto ciò lo si può costruire con una presa in carico “singolare”, ritagliata su misura.
“Torna tra un mese”, magari dopo un TSO o un ricovero volontario in SPDC, sarà difficile che accenda l’entusiasmo del soggetto che, al di là che sia nelle sue attese o meno, potrebbe tuttavia lasciarsi “risvegliare” da una preposta come ” … poiché mi sembra tu stia attraversando un momento particolarmente difficile non voglio lasciare passare troppo tempo, desidero vederti tra 3-4 gg. o una settimana …. “
Occorre che prima sia l’operatore a mettere in gioco qualcosa di se stesso, non lo si può chiedere alla persona in piena crisi, in pieno delirio in cui ha bisogno di proteggersi dal un Altro che nella sua percezione è carente, o intrusivo, o entrambi, in funzione dei variegati Altri della sua vita. Questo è uno snodo delicato che richiede da parte degli operatori, auspicabile che siano diversi con diversi ruoli, appunto per offrire al soggetto la possibilità di “utilizzali” ciascuno a modo proprio “my way” in funzione delle sue necessità. È il momento in cui di fronte a un troppo vuoto di percezione di sé e/o a un troppo pieno di “persecuzione” dell’Altro il soggetto possa avvertire di essere sostenuto per costruire qualcosa di proprio: alleggerendo l’ossessività persecutoria e contemporaneamente tessendo pian piano qualche trama nel fondo del sacco bucato che lo rappresenta. É un lavoro che richiede da parte dell’operatore attenzione, sensibilità, formazione, desiderio, passione, lavoro di “squadra”; a rischio di quello che i professionisti definiscono burn-out, esaurimento, per loro stessi, in mancanza di questi ingredienti.
Questo ci insegna lo stare accanto ai nostri congiunti ed il lavoro di ascolto nelle nostre associazioni con familiari e anche con gli interessati. Lo Psichiatra Eugenio Borgna nella sua intervista su Repubblica di domenica 25 maggio afferma che si può “guarire” “anche quando i segni della malattia continuano a manifestarsi: Si può guarire continuando ad avere accanto quest’ombra”. Jaques Lacan, psichiatra e psicoanalista francese (1901-1981), direbbe che la malattia come la follia sono condizioni dell’essere, fanno parte della condizione umana, non si tratta allora di guarire come si guarisce da una polmonite, ma si può imparare a saperci fare con le nostre debolezze, a sapere convivere con le nostre difficoltà, anche imparare a utilizzare creativamente le nostre fragilità.
Inutile, quindi, sperare di ritornare come si era prima, prima dell’evento, del trauma, della crisi … bensì si può imparare a costruire spazi di autonomia, di padronanza di sé, di libertà, a gestire meglio le proprie fragilità, di imparare a mantenere il legame sociale, la cosa più difficile per chi ha una fragilità mentale. E ciò dipende molto dalla qualità dell’incontro con i curanti, degli incontri nella vita e dalle opportunità che vengono offerte alla persona. Il contesto gioca un ruolo fondamentale nel percorso di cura, molto più di quanto giochi la patologia.
I dati sulla contenzione (legare le persone a letto in ospedale) in Lombardia, esposti nel Convegno sopra citato, mostrano una media di persone contenute nel SPDC della Lombardia del 11 per cento, con un minimo del 1 per cento e un massimo del 18 per cento. Che cosa giustifica quella differenza? la patologia o piuttosto il contesto: la cultura degli operatori, la decisione di non voler contenere se non nello “stato di necessità” contemplato dall’Art. 54 del CP, la formazione continua degli operatori, il lavoro di equipe, una presa in carico di accompagnamento … ?
La posizione di alcune categorie di psichiatri
Forse mi sbaglio ma la lettera chiamata “ CARTA PER IL SUPERAMENTO DELLE LOGICHE MANICOMIALI . Un contributo per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari “ (vedi il documento) di alcuni medici e categorie professionali e il documento inviato al Ministro Lorenzin dalle categorie richiamate all’inizio mi sembra ricalchino la posizione 1 sopra descritta. Ovvero, questi psichiatri riterrebbero non appropriata la presa in carico di queste persone ( i 5 casi sopra richiamati) da parte del DSM. Per loro le persone citate nei 5 casi descritti, probabilmente per la maggioranza, dovrebbero essere inviate a servizi esterni al DSM. SERT, Servizi dipendenze, luoghi per demenze, …. ?
In tale CARTA PER IL SUPERAMENTO DELLE LOGICHE MANICOMIALI si evoca a parole il superamento delle logiche manicomiali, si richiama la legge 180, ma in realtà i punti 2) – percorsi in strutture specifiche per demenze e problemi neurologici ; 3) – problemi alcol correlati e problemi di dipendenza; 4)- le persone con condotta antisociale non imputabili; citati come esempi che non dovrebbero competere al DSM, richiamano categorie non sempre corrispondenti alla realtà, perché le categorizzazioni non sono così distinte, bensì presentano margini di sovrapposizione, le cosiddette zone di confine. I casi A-B-C-D-E sopra descritti, già tutti in carico ai DSM, lo evidenziano.
Chi dovrebbe occuparsi di queste persone se non il DSM, pur usufruendo all’occorrenza di collaborazioni specialistiche, e talvolta anche di luoghi appropriati? Io credo il DSM, senza se e senza ma. E del resto in Lombardia esiste già una ampia gamma di comunità di diverse caratteristiche, senza bisogno di costruirne di nuove, anche comunità che ospitano numerose persone in misura di sicurezza in percorsi alternativi all’OPG e persone che hanno già terminato la misura di sicurezza. Ciò non significa che non ci possano essere casi particolari, residuali o anche nuovi con bisogno di soluzioni residenziali oltre che di cura anche di custodia. Ciò va contemplato ma non può costituire l’elemento prevalente nella programmazione delle caratteristiche delle residenze. Per questo è urgente che le regioni rimodellino i programmi che hanno presentato al Ministero di utilizzo dei fondi previsti in conto capitale solo con la costruzione di nuove strutture, le REMS, come ha fatto alla grande Regione Lombardia, ma utilizzino invece quei soldi principalmente per potenziare i DSM.
Ruoli e rapporto tra sanitario e sociale
Siamo consapevoli delle condizioni difficili in cui i Servizi di Salute mentale e quindi i professionisti, sono costretti a operare: risorse che continuano a diminuire, problematiche sempre nuove da affrontare, soggetti nuovi che vanno a incrementare la domanda, aumento della sofferenza. Tuttavia, tempi di crisi e carenze di risorse, endemiche in salute mentale, debbono obbligare a interrogarsi sulla qualità delle pratiche, sul confronto con le migliori, la formazione degli operatori, il lavoro in equipe, la ricerca di sinergie, il lavoro con il territorio, il coinvolgimento dei familiari e degli utenti e l’eventuale riequilibrio di risorse tra sanitario e territorio.
Il confronto con le esperienze provenienti dall’estero è certamente utile a condizione che non si perda di vista il patrimonio di cultura, di valori, di buone pratiche maturate in Italia dall’esperienza della deistituzionalizzazione avviata da Basaglia e della successiva Legge 180 che ne ha assunto i principi e valori, poi trasferiti nella Legge di istituzione del servizio nazionale 833. Valori e pratiche di salute mentale esportate in diverse parti del mondo, purtroppo solo parzialmente assunte dalle regioni in Italia, se non talvolta tradite.
Abbiamo certamente bisogno di professionisti capaci, ai quali se va riconosciuto il loro sapere e sapere fare, con la consapevolezza che è sempre un sapere supposto, non va tuttavia delegato loro in toto la presa in carico dei nostri congiunti. Come familiari non siamo solo stakeholder, portatori di specifici interessi, ma anche di uno sguardo altro, di vicinanza, di attenzione, affettività, sensibilità allo stigma, che richiede contaminazioni con lo sguardo dell’operatore alla ricerca di valori condivisi oltre che di responsabilità. La clinica non è solco farmaco, diagnosi, visite ambulatoriali; è soprattutto relazione, accompagnamento, contaminazione con il territorio, attivazione del territorio, saperci fare con il territorio, con le realtà produttive, i mercato e i servizi dei Comuni. In questo le Associazioni di familiari, utenti, il privato sociale… richiedono una maggiore condivisione in termini di leggi, piani di salute mentale, programmi e progetti, a tutti i livelli: nazionale, regionale, di DSM.
La non imputabilità
Vorrei riservare una nota per le persone che hanno commesso reato che hanno un disturbo mentale. Il Codice Penale attuale, Codice Rocco, prevede per le persone incapaci di intendere e volere la non imputabilità e da qui l’invenzione dell’OPG come percorso diverso dal carcere. Se apparentemente l’Opg può apparire un luogo privilegiato per i malati mentali e una forma di protezione per gli stessi rispetto al carcere, almeno in teoria, in realtà contiene una grossa ingiustizia: l’impedimento al folle reo attraverso lo sconto della pena di discolparsi della propria colpa. Il recluso che ha commesso un reato desidera pagare il proprio conto con la giustizia attraverso una pena che abbia una durata certa, per sentirsi così liberato dalla negatività del passato. Ciò è impedito a causa della non imputabilità e della misura di sicurezza che ne consegue, come il caso A mostra. Non prevedendo un termine la pena rimane indefinita e a rischio di diventare infinita, fine pena mai. 21 anni di Opg per A mi sembrano una mostruosità e ancora si perpetra la ricerca in giro per l’Italia di un luogo che lo possa accogliere. Luogo che non si troverà finché non ci si assumerà la responsabilità di prendere in carico la persona, con un progetto che preveda la necessaria assistenza e l’affiancamento di operatori per dare ad A un posto e una dignità umana. Quanto tempo perso, soldi sprecati, danni per il soggetto e la famiglia.
Ciò non significa che attribuendo la imputabilità si voglia inviare le persone in carcere. Al di là delle condizioni aberranti in cui si trovano le carceri italiane, giustamente oggetto di particolare mira e riprovazione da parte della Commissione europea dei diritti dell’uomo, oltre che del presidente Napolitano, riteniamo comunque che il folle reo debba usufruire di percorsi riabilitativi alternativi alla custodia, al carcere e al Opg. Non solo, ci battiamo ugualmente affinché le persone con una sofferenza mentale ora in carcere debbano essere curati in luoghi di cura, alternativi al carcere. Il potenziamento degli interventi dei servizi psichiatrici nelle carceri deve essere rivolto a chi ha una sofferenza mentale sopraggiunta a causa della condizione carcerarie, mentre chi ha un disturbo mentale grave deve usufruire di percorsi alternativi.
Per concludere, un reale superamento degli Opg, al di là del Decreto legge 52/2014, ora in discussione alla Camera, i cui miglioramenti approvati in Senato vanno difesi, richiede certamente anche la necessaria modifica del CP in direzione dell’imputabilità, ma soprattutto il vero superamento si realizza se i DSM diventeranno funzionanti, capaci di una reale pressa in carico della sofferenza mentale delle persone interessate, sanitaria e socio assistenziale, in relazione alle necessità abitative, lavorative, relazionali.
Il punto di partenza deve rimanere il PTI, Piano di Trattamento Individuale, da cui discendono a cascata il programma riabilitativo e gli eventuali luoghi di cura in funzione della gravità/gravosità. Ciò chiama in causa chi dirige i DSM che devono modulare le risorse a disposizione per dare risposte diversificate, territoriali o in comunità, modulando l’impiego del personale in funzione delle diverse necessità.
(*) Valerio Canzian, Presidente Associazione di familiari Urasam Lombardia, aderente all’U.N.A.Sa.M