“Fenomenologia alzo zero. Il Corpo a corpo tra follia e cura” di Gilberto Di Petta.
Quodlibet 2023
Gilberto Di Petta, erede e interprete della migliore tradizione italiana di psicopatologia fenomenologica, ha appena pubblicato per i tipi di Quodlibet un volume dal titolo Fenomenologia alzo zero. Il lettore più attento vi troverà articoli pubblicati sul sito Pol.it, la più grande piattaforma italiana sui temi della salute mentale, online dal 1995 grazie alla tenacia e alla passione di Francesco Bollorino. “Cuore di tenebra. Viaggio al termine della psichiatria” è il titolo della rubrica di Di Petta, evocativo del viaggio al fondo dell’animo umano e dell’incontro col Male che Marlow narra nell’omonimo romanzo di Conrad.
Ma Fenomenologia alzo zero non è solo la descrizione delle mille contraddizioni che hanno caratterizzato il procedere della psichiatria negli ultimi 50 anni. Come ricorda Giovanni Stanghellini, che impreziosisce il volume con una tagliente introduzione sulle piccinerie e il grigiore della psichiatria italiana c.d. mainstream, le storie che si avvicendano nelle atmosfere notturne di un reparto di emergenza turbano, sì, ma suggeriscono e infine significano, ri-assegnando valore alle vite apparentemente incomprensibili dei pazienti e nobiltà al mestiere del curante, che emerge al di là di ogni sovrastruttura concettuale.
Nel suo “corpo a corpo tra follia e cura” (sottotitolo del volume) Di Petta si muove su un registro tematico che fonde l’innocenza del clinico, i suoi occhi stupiti di fronte alle mutevoli conformazioni della sofferenza psichica, e il rigore del ricercatore, del suo metodo fondato sull’incontro e sulla ostinata tensione a comprendere. In questo non risparmiandosi, anzi mettendo a nudo la propria umanità, come nel commovente racconto della sua ultima seduta di analisi: “solo adesso il mio essere uomo e il mio fare lo psichiatra si stanno finalmente incontrando”. Avvertirsi “semplicemente umano tra gli umani” è forse anche la pietra d’angolo che impedisce alla passione di crollare sotto il peso della disillusione, del pessimismo così diffuso (il fenomeno dei pensionamenti e delle dimissioni di massa dal SSN ne è testimonianza) tra coloro che sentono di appartenere a una “generazione che ha perso”, che non ha saputo mantenere in vita e consolidare le grandi conquiste degli anni ’70.
Disillusione e pessimismo non impediscono a Di Petta di compiere, nelle atmosfere crepuscolari in cui scrive, una spietata analisi delle cause che ci hanno condotto alla situazione attuale e di porre una serie di quesiti che potrebbero a buon titolo essere i punti cardinali con i quali orientarsi per una auspicabile riedificazione dell’esistente. Evidenziando nel rassicurante (anche se frustrante) riprodursi della realtà contraddizioni fastidiose, a volte spiacevoli, Di Petta ci riporta al senso delle cose che facciamo e alla distanza tra queste e i valori in cui crediamo. Nelle storie che racconta con straordinaria capacità di linguaggio, Di Petta rappresenta l’emergenza che vive il sistema della Salute Mentale nel nostro Paese, la frustrazione e la mancanza di speranza che accomuna operatori e utenti, l’uso residuale e contenitivo cui la psichiatria sembra essere relegata.
Una psichiatria difensiva, succube di algoritmi diagnostici e terapeutici incentrati su un modello organicistico, criticato a parole ma praticato nei fatti. Un Servizio Pubblico che accoglie la sofferenza per incasellarla negli schemi dettati da efficienza e produttività. Un’offerta di servizi privati o convenzionati senza una regia pubblica che impone all’utente o al familiare il districarsi nel labirinto di sigle, strutture, approcci specialistici, e spesso di spendere di tasca propria per ottenere ciò cui si ha diritto.
E ancora: la componente ospedaliera del DSM, il SPDC, ossia il polo che esprime la maggiore intensità di assistenza sanitaria che diventa riferimento abituale per problemi di ogni genere. È perfino superfluo argomentare sulle cause che generano questi flussi, ma mi piace cogliere l’analogia molto attuale con la medicina generale. Sul piano organizzativo, la migliore risposta ad un uso improprio del Pronto Soccorso ospedaliero è considerata una maggiore responsabilizzazione delle cure primarie, dei medici di medicina generale ed il loro aggregarsi in strutture territoriali (le Case della Salute) per garantire una presenza sulle 12 ore, con la possibilità in alcuni casi di accogliere anche brevi degenze, e con il servizio di continuità assistenziale a rispondere alle urgenze notturne. Dunque: prossimità territoriale, continuità assistenziale, possibilità di risposta nelle 24 ore. Ma non erano queste le caratteristiche che avrebbero dovuto assumere i Centri di Salute Mentale? Cosa ha impedito che questo disegno visionario si realizzasse?
Un altro aspetto che emerge più volte nel racconto è il riduzionismo nell’approccio terapeutico, il “bagno psicofarmacologico”, sedativo, contenitivo. Non c’è oggi psichiatra, anche il più acceso organicista, che non sia disposto ad ammettere che le possibilità di prognosi favorevole si accrescono esponenzialmente se l’approccio terapeutico è ispirato all’integrazione degli interventi farmacologici, psicoterapici e sociali, questi ultimi estesi alla rete relazionale prossima dell’utente. Se a ciò aggiungiamo le consolidate evidenze sugli effetti iatrogeni per nulla trascurabili che agli psicofarmaci – specie quando assunti a lungo termine – vengono attribuiti, non si comprende come sia eticamente e deontologicamente sostenibile un intervento fondato esclusivamente sui farmaci.
Nelle pieghe delle diverse storie presentata colpisce inoltre la descrizione del ruolo che utenti e familiari assumono nei confronti del ricorso al PS ed eventualmente al ricovero: da un lato passività e sopportazione, dall’altro la ricerca di sollievo, sia pur temporaneo, ad una pena che si considera ineluttabile ed invincibile. Nell’evocare e sostenere questo sentimento, il ricovero denuncia il suo fallimento prima ancora di essere stato realizzato. C’è un’antinomia reale tra questo modo di interpretare il ricorso al ricovero ospedaliero e l’idea che l’intervento, per essere terapeutico, debba tendere a restituire a utente e familiari il controllo negoziale sulla propria esistenza; e la capacità dei Servizi di coinvolgere attivamente le persone assistite nei progetti di vita che li riguardano; e il fatto insomma di essere soggetto o oggetto di un processo di cura.
Voglio cogliere, infine, il richiamo che Di Petta rivolge all’accademia, alle Scuole di Specializzazione (memorabile in tal senso la “lettera a uno specializzando”), chiedendosi quale e quanta formazione essi ricevano per comprendere ed orientare le opportunità che una crisi, nel suo disvelamento di un campo di possibilità, offre. E quanto adeguato sia il sistema universitario attuale ad accompagnare e sostenere le riforme del sistema sanitario nazionale o costituisca piuttosto una zavorra imbarazzante. Anche in questo caso la sollecitazione rinvia a domande di portata più ampia, che ci interrogano sulla coerenza tra programmazione didattica universitaria e le competenze oggi indispensabili per lavorare nella rete dei servizi sociosanitari di comunità. Ma come perseguire questa coerenza di fini in contesti autoreferenziali che rimangono separati dal sistema sanitario e sociale, senza una reale possibilità di integrazione nella salute mentale territoriale?
Il volume si conclude con parole al tempo stesso di rimpianto e di speranza. Ricordando gli anni dei congressi in cui si confrontavano visioni diverse, non necessariamente antagoniste, arricchite dalle argomentazioni dei Maestri, con i quali si apprendeva “a bottega” e non sulla versione elaborata dei Bignami-DSM5, la nostalgia è inevitabile. Al cospetto di una psichiatria “povera, perché adornata di bigiotteria e paccottiglia”, anche le tesi tardive di quanti rivalutano gli approcci olistici (avendoli ignorati e rimossi per una vita), appaiono intuizioni luminose. Non è a questi esercizi di scientifico trasformismo che vanno affidate le nostre speranze, quanto piuttosto al risveglio della curiosità di chi si è riconosciuto nelle parole di Di Petta. La speranza è che le cose cambino, certo, ma perché ciò avvenga è necessario essere speranza e non semplicemente averla.