di Francesco Marco de Martino (*)
– Caro Marco, come stai? Sembri preoccupato.
– In effetti sì, mi ha chiamato Peppe da Trieste, mi ha informato sull’approvazione in Senato del disegno di legge AS 2067. Fra le altre cose, è passato un emendamento che vuol trasformare la funzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le R.E.M.S., da luogo residuale e transitorio – dove ospitare esclusivamente pazienti per i quali non è assolutamente possibile applicare sin da subito un programma di cura in libertà vigilata – a posto in cui si inviano primariamente tutte le persone sottoposte a misure di sicurezza, anche provvisorie, e pure tutte le persone detenute per le quali sia necessario accertare le condizioni psichiche, oltre che i condannati a pena detentiva, se sopravviene una infermità psichica o un disturbo della personalità.
– Ma quindi…
– Aspetta, aspetta, lasciami finire. Inoltre, si vorrebbe che l’internamento nelle R.E.M.S. non fosse più una misura eccezionale, da applicarsi solo quando tutte le altre non siano praticabili, come finalmente ha stabilito legge n.81/2014, ma che, di fatto, tornasse ad essere di nuovo la prima ratio
– Di nuovo gli O.P.G.? Ma come è possibile?
– Cosa vuoi che ti dica. A volte su queste decisioni influiscono la scarsa conoscenza dei problemi reali, gli indici di criminalità – non quelli veri, perché quelli dicono che i reati sono diminuiti, ma quelli allarmistici dei mass media – la conseguente reazione delle forze politiche, l’atteggiamento dell’opinione pubblica, le risorse che si vuol rendere disponibili per la prevenzione e la cura, la consistenza della popolazione carceraria, le condizioni del mercato del lavoro, della casa e così via
– Ma allora voi giuristi a cosa servite? Tutte le vostre teorie?
– Mah, intanto occorre che qualcuno le legga. Poi … l’accademia quasi mai arriva all’opinione pubblica, al legislatore o al giudice. Inoltre, quand’anche qualcosa arriva, non è detto che basti. L’ideologia rieducativa, ad es., se fraintesa, può dare luogo a torsioni autoritarie. Ti ricordo che la stessa storia smentisce l’illusione che l’ancoraggio al principio di legalità sia stato sufficiente – da solo – a impedire strumentalizzazioni dell’essere umano per fini di politica criminale. La teoria retributiva, per farti un altro esempio, è stata utilizzata anche come alibi filosofico e giuridico per giustificare grandi nefandezze dall’autoritarismo repressivo dello stato fascista. Giuliano Vassalli diceva che “Contro le ricorrenti tentazioni dell’uomo di opprimere, in nome dell’uno o dell’altro motivo, i propri simili, nessun baluardo può essere validamente opposto in nome di giuridiche teorie; per contro ogni fondamento teorico è buono per giustificare la prepotenza e l’arbitrio”.
Anche per questo penso sia un errore la pretesa di circoscrivere la soluzione dei problemi delle persone che provano dolore per i disturbi mentali al solo momento dell’esecuzione della condanna e all’internamento nelle R.E.M.S..
– Fammi capire…
– Il principio fondamentale della dignità dell’uomo, previsto dall’articolo 2 della Costituzione, il principio di uguaglianza previsto dall’articolo 3 e il diritto alla cura anche di chi delinque, di cui al successivo articolo 32, costituiscono patrimonio della cultura giuridica europea in ragione del loro collegamento con il principio di proporzione fra il fatto commesso e la quantità e qualità della sanzione. Di conseguenza, la segregazione di una persona per un tempo sproporzionato rispetto alla gravità del reato commesso è fuori da questo patrimonio culturale. Inoltre, sul piano applicativo, non è difficile capire che un internamento tanto severo da non poter essere sentito come giusto dal suo destinatario, preclude la disponibilità ad accettare qualsiasi forma di supporto in vista della cura e del reinserimento nella società.
– Per quale ragione, come oggi ancora accade, la misura di sicurezza deve essere agganciata al massimo della pena edittale prevista dalla norma violata? Perché non deve essere proporzionata alla gravità concreta del fatto commesso? E prima ancora, perché si deve usare la segregazione, la privazione della libertà personale, per condotte che ledono interessi di scarso valore?
– Il sistema sanzionatorio, per essere veramente efficace, deve poter esplicare i suoi effetti già sulla scelta che il legislatore fa in ordine all’utilizzo o meno del diritto penale. Dato il rango elevatissimo del “valore” libertà personale, su cui si va ad incidere con il diritto penale, si dovrebbe fare un uso il più possibile limitato della restrizione personale e non di certo utilizzarla quale prima ratio, come invece il disegno di legge 2067 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena) propone. L’art. 13 della Costituzione, infatti, riconosce il carattere inviolabile della libertà personale. Prima di parlare di R.E.M.S. ci si dovrebbe interrogare sulla legittimità di misure segreganti nei confronti di persone che hanno posto in essere condotte di scarso o nullo allarme sociale; spesso motivate dalla voragine esistenziale che crea l’assenza pregressa di cure, e talvolta di una casa o di un lavoro, e non dalla patologia psichica. Poi, ci si dovrebbe interrogare sulla legittimità delle stesse misure di sicurezza e del sistema del c.d. doppio binario, che finisce per discriminare in modo inumano i soggetti “incapaci”; sulla entità e sul tipo di sanzione, oltre che naturalmente sulla commisurazione della misura da parte del giudice. Se non si ragiona già in astratto su questi temi, diventa impossibile prescegliere modalità operative di strumenti volti a migliorare la salute e quindi la socialità del reo; soprattutto qualora la sanzione da applicare dovesse risultare nel tipo o nell’entità inadatta a favorire l’obiettivo preso di mira: che in ultima analisi non può che essere il miglioramento delle condizioni di vita dei sofferenti psichici autori di reato, e quindi della società stessa.
– Il filosofo del diritto Gustav Radbruch lo aveva capito già all’inizio del Novecento quando affermava che il principio di uguaglianza, e quindi di proporzione delle pene alla gravità del reato commesso, costituisce il fondamento di tutta la giustizia penale. La nostra Corte costituzionale se ne è occupata, quasi un secolo dopo, nel 1988, ma solo in riferimento al principio di colpevolezza e alla finalità rieducativa della pena, non in riferimento alla misura di sicurezza…
– Ma tu puoi mai pensare che una persona con disturbo mentale che ha dato dello stupido a un vigile urbano resti internato in misura di sicurezza per 17 anni? O che un ragazzino psichicamente immaturo, trovato in possesso di uno Swatch non suo, venga internato per settecento giorni? E’ giustizia questa secondo te? E soprattutto, cura? E’ utile alla società?
– In Italia la misura di sicurezza detentiva – questa non è una mia opinione, è storia – è stata una variante solo nominalistica della pena, si è ridotta a strumento per aggirare i principi di garanzia propri dello stato di diritto e delle pene, quale anzitutto è quello della durata non indeterminata della stessa. Per non parlare del diverso piano del trattamento e della cura e quindi dell’orrore che erano gli O.P.G. Hai visto il video della Commissione di inchiesta presieduta dal sen. Marino? Ecco, non dimenticarlo mai.
– Ma scusa la legge 81/2014 non ha abolito gli ergastoli bianchi? Non ha finalmente posto il divieto di pene indeterminate nel massimo?
– Si, la legge lo ha fatto, ma la Corte di Cassazione, pochi mesi fa, ha stabilito che quella legge non si applica a chi era già sottoposto alla misura di sicurezza! Quindi…
– Ma non è possibile, non ci credo!
– Mi spiace darti tutte queste brutte notizie. Oltretutto, scusa, torno un attimo indietro, un trattamento penale contrario al senso di umanità, oltre a violare gli artt. 2 e 27 della Costituzione, non fa altro che aggravare le condizioni dei condannati sofferenti psichici, e della società stessa. Nel momento in cui il condannato torna in libertà, che persona sarà mai dopo tanta sofferenza, insensatezza e crudeltà?
– Anche da questo versante non mi pare proprio che ci siano alternative alla cura e al reinserimento.
– Ma se si rifiuta? Se non accetta di migliorare? Se non si cura? Oppure, se nonostante le cure resta ammalato?
– Quante domande, non ho tutte le risposte che tu vorresti. Ma una cosa mi sembra certa, l’obiettivo della risocializzazione, la rieducazione, quella che noi giuristi chiamiamo “prevenzione speciale”, riceve piena legittimazione solo se collocato nella prospettiva di emancipazione e progresso della società, descritta dall’art.3 co. 2 della Costituzione, cioè solo se concepita come un’offerta di ausilio finalizzata a rimuovere gli ostacoli che si frappongono a un inserimento sociale più idoneo a favorire l’osservanza della legge da parte di chi ha commesso un reato. Ma nulla più. Non si possono imporre mete, cure, risultati… Anche perché questo violerebbe un principio sacrosanto alla base di ogni sistema veramente democratico: il rispetto dell’autodeterminazione personale. Poi, se si resta ammalati, nonostante la cura, bisogna continuarla ma attenzione, facendosi carico delle domande dell’ammalato, delle sue esigenze specifiche, casa, lavoro e … provando ad ascoltare, senza avere paura.
– Paura di cosa?
– Beh, sai… le persone hanno paura di ciò che non conoscono. E’ comprensibile. E la malattia mentale a volte ti costringere a guardare l’ignoto. E questo può creare qualche difficoltà a chi non ha la sensibilità necessaria e non è pronto per capire.
– Mi è chiaro. Ma… perché? Quando ci siamo conosciuti tu hai avuto paura di me?
– Intanto non penso che la paura sia necessariamente una cosa negativa. Quindi non stare a dispiacerti. La paura dà senso al coraggio. Spesso si dimentica. Comunque, se proprio vuoi saperlo te lo dico, anche se sono passati tanti anni. Lo ricordo bene… ebbi la febbre molto alta. Arrivasti così, all’improvviso. In realtà, ora che ci penso, non ho mai capito quanti anni hai, forse pochi meno di me, visto che sei arrivato quando avrò avuto l’età di cinque anni. Anche se la tua voce sembrava dimostrarne di più. All’inizio non mi spaventai, peraltro ero stordito dalla febbre altissima, pensai di aver sentito male, o forse che mia madre, in casa, ansiosa per il mio stato febbrile mi chiamasse …con la sua insuperabile e mai risparmiata dolcezza. Ma non era così.
– E quindi quando te ne accorgesti?
– Di sera, pochi giorni dopo, mi chiamasti per nome, ancora una volta; sussurravi. Lì mi spaventai un po’, neanche tanto a dire il vero, cercai con lo sguardo intorno a me, ma il mio skate non poteva essere stato, men che meno il supersantos, ai fantasmi non ho mai creduto… All’inizio ero scosso, poi piano piano mi sono abituato alla tua presenza.
Erano anni già difficilissimi per me, in più ero solo un bambino. La disperazione che a volte mi assaliva mi portava ad avere comportamenti fortemente autolesionistici e distruttivi. Quando ci penso provo ancora tanto dolore. Un giorno feci una cosa veramente terribile, tu non c’eri, ma credo di avertene già parlato. Abitavo al quinto piano, guardai giù, volevo liberarmi … il giorno stesso mio padre chiamò il fabbro, furono saldate sbarre e griglie di ferro a finestre e balconi. Ci sono rimaste lì venti anni. Ma tu con tutto questo non c’entravi proprio nulla. E quindi perché avrei dovuto avere paura di te? Eppure, questa cosa non la capisce nessuno, tutti a collegare la malattia con la spinta al crimine, come nell’Ottocento. Ma è una banale semplificazione. Ed ha comportato e comporta enormi ingiustizie.
– In che senso?
– Nel sistema penale, come ti ho detto, c’è una irragionevole disparità di trattamento fra il sofferente psichico e il non sofferente psichico, paradossalmente a tutto svantaggio del primo. Questo perché nei primi decenni del Novecento, quando è stato scritto il codice penale, si pensava che le persone potessero essere distinte fra loro, come se non appartenessero alla stessa specie, capisci di cosa sto parlando? Di classificare gli esseri umani… E così, il disagiato mentale è stato considerato un non umano, e internato in un manicomio civile, o in quello criminale se autore di reato. I manicomi, e da poco gli O.P.G., sono stati chiusi, ma il “non umano” continua ad esistere nel codice Rocco, e ad un non umano quali diritti umani e civili possono mai spettare? Ecco perché ragionare solo di R.E.M.S. mi avvilisce.
– E’ terribile!
– Lo so. Pensa che mentre per sottoporre una persona a custodia cautelare in carcere occorre che il fatto commesso sia punito con pena minima di cinque anni. Per internare un “non umano” si scende a due. Inoltre, per il “non umano” è sufficiente la presenza della pericolosità c.d. generica, che consiste nella “semplice probabilità” di commettere nuovi fatti preveduti dalla legge come reato. Mentre, per applicare la custodia cautelare in carcere a una persona “umana” non è sufficiente questa astratta probabilità, ma è necessario accertare che vi sia un pericolo “concreto” e “attuale” e che la persona imputata commetta gravi delitti, ad es. con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale, di criminalità organizzata, specificamente indicati dalla legge o delitti della stessa specie di quello per cui si procede. Nel confronto si evidenzia una insopportabile disparità di trattamento. Chi è portatore di una pericolosità meno intensa, il non umano, viene rinchiuso e chi esprime una pericolosità più intensa, la persona, resta libera. Questa disparità è veramente odiosa se consideri che giuridicamente è stata concepita a tutto svantaggio di chi è più fragile. E lo stesso accade quando il magistrato deve decidere le sorti del non umano che deve tornare in libertà. Ad es., mentre per un furto aggravato il non umano è internato anche fino a cinque anni, in presenza della commissione di un fatto gravissimo come l’omicidio, la scadenza di legge della custodia cautelare in carcere nella fase delle indagini preliminari, per l’umano, è di solo un anno.
– Ma veramente?
– Si. E pensa, anche se una persona commette un gravissimo delitto di mafia giustamente ha diritto a tutta una serie di garanzie negate al non umano, anche ragazzino, che in una crisi di ansia tira i capelli al proprio psicoterapeuta!
– Tu cosa proponi?
– Per quanto riguarda la fase della cognizione: eliminare la distinzione fra imputabili e non imputabili; eliminare le differenze fra l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza e la custodia cautelare in carcere; stabilire che tutte le sanzioni devono avere durata certa e proporzionata al fatto commesso. Nella fase dell’esecuzione della sanzione, solo ora certa e proporzionata: individualizzare il trattamento per tutti i condannati in base ai bisogni della persona. Se il condannato sottoposto a un trattamento individualizzato ha anche bisogno di cure, si cura. Nella pratica, se Giovanni ha commesso un furto va condannato, con o senza schizofrenia, con una misura proporzionata al fatto commesso. Dopodiché, in sede di esecuzione, se Giovanni necessita di cure lo si cura, se non necessita di cura si farà solo l’offerta di risocializzazione, ma sempre nei limiti della entità della sanzione comminata. In ultimo, il trattamento deve consistere nel saldare una relazione fruttuosa del sé con il contesto esterno. Il carcere e le R.E.M.S. in questo non servono. Bisogna predisporre molto più personale e risorse in tal senso. E poi c’è un’ultima cosa che non ti ho detto.
– Dimmi!
– Nel testo che si vuole approvare si pretende di far rientrare nelle infermità, allargandole oltre misura, anche i disturbi psichici.
– Quindi?
– Quindi, questo significa che essendo il 40% dei detenuti soffrente di disturbi psichici in ragione delle condizioni delle carceri italiane, cosa facciamo, li inviamo tutti nelle R.E.M.S.? Inoltre, se uno come noi ha un diverbio con un vigile urbano, o se un ragazzino con lo stesso nostro disturbo riporta una bici presa a noleggio in un posto sbagliato, è probabile, come è già successo, che il giorno dopo si trovi in una R.E.M.S.
– Questa volta sono io ad avere paura.
– Se poi, dopo la R.E.M.S., si ha la sfortuna di capitare in una comunità privata, magari di quelle con finestre chiuse tutto il giorno, dove si pensa esclusivamente a fare profitto sui non umani … dove si ha il nome scritto su un bicchiere di plastica, sempre lo stesso, per mesi, dove quando si esce dalla propria stanza buia, stordito dai farmaci, bisogna per forza sedersi sulla sedia che è stata assegnata, e guai a sbagliare, dove si fa profitto sul cibo, dove addirittura manca l’acqua calda d’inverno, dove non portano mai nessuno fuori per prendere un po’ d’aria, dove nessuno ha accesso, dove nessuno sa e dove nessuno ti viene a salvare, allora … forse… preso ancora una volta dalla disperazione, la salvezza, l’unica salvezza, può essere solo quella di iniziare a sperare di avere un quinto piano senza nessuno che ti fermi .
– Sto tremando, per favore basta , basta parlare di queste cose brutte, ma poi, tu che sai tutte queste cose non puoi fare niente?
– Ci sto provando, ci sto provando da diverso tempo, continuerò a fare del mio meglio affinché tutto questo non accada.
* Francesco Marco de Martino
Aggregato di diritto penale e criminologia nell’Università degli Studi di Napoli, Federico II
(L’immagine è da Il Grande Gigante Gentile, di Roald Dahl, regia di Steven Spielberg)