Non sono una giornalista, né un critico letterario. Questo per dire che non so scrivere una recensione. Ma sento il bisogno di dire qualcosa, a caldo, dopo aver terminato, questo pomeriggio, le ultime 150 pagine del libro di Carlo Miccio, “La trappola del fuorigioco”.
È un libro che si divora, mai pesante, anche se i temi che tratta – la malattia mentale, la droga, un’Italia in cui la paranoia, l’individualismo sfrenato, le soluzioni magiche che assurgono sempre più a sistema socioculturale – pesanti lo sono, eccome. Mi sono chiesta come ha fatto, Carlo-Marcello, ad essere così lieve, delicato, ironico, divertente, commovente, emozionante, senza mai farsi sopraffare dalla facile retorica, dal comprensibile sdegno, dalla critica feroce. Credo che la risposta sia nel calcio (di cui non capisco nulla, beninteso), nel senso in cui lo spiega lui: il calcio totale, il collettivo, che poi è il comunismo del compagno Cruyff. Se si è insieme, se si è in un legame sociale, se si lotta tutti per lo stesso obiettivo, allora non si può provare repulsione e disinteresse per nessuno: non per il pusher che auspica l’avvento del Berlusca, non per i tossici che si sono incontrati o che si è stati, non per il padre malato che – novello San Francesco in un paese che non è più terra di Santi, e che ultimamente disprezza anche i navigatori disperati dell’Africa – pur avendogli segnato l’esistenza con la sua follia, è sempre visto con uno sguardo carico d’amore. Ecco, forse è questo il fil rouge che più sento attraversare questo bel libro: l’amore, declinato in tutti i modi possibili, anche i più sbilenchi, amore che permette di immaginare l’altro sempre all’interno di un possibile, grande, gioco di squadra, in cui tutti siamo responsabili dello scudetto vinto, come del rigore sbagliato.
Un’ultima cosa su una frase che mi ha particolarmente colpito, alla fine del libro: “Perché è di questo che si nutre il mio latah: non della grandezza maniacale dei deliri di mio padre, ma dall’assenza del desiderio che pervade di sé il resto della sua vita ordinaria. È di quello che è fatta, la mia trappola del fuorigioco. Di assenza del desiderio.” Questa specifica trappola del fuorigioco accomuna molte delle persone che vedo, professionalmente, ogni giorno, nel mio lavoro di psicoterapeuta. È una trappola silenziosa ma implacabile, capace di spegnere gli ingegni più acuti, le anime più sensibili. Mi piacerebbe pensare di poter essere una specie di mister, come Carmelo Bellìa, capace di spiegare alla squadra dei miei pazienti che un cambiamento è possibile, e che siamo in campo insieme, per guadagnarci, giocando, il pane e anche le rose.
Grazie a Carlo Miccio, e a Peppe Dell’acqua che con il consueto intuito ha scovato anche questa perla.