_ARCHI~1di Luigi Benevelli.

Le maggiori associazioni professionali degli psichiatri italiani, insieme ad alcune associazioni di utenti, famigliari e operatori non-medici, hanno sottoscritto alla fine del maggio scorso una Carta per il superamento delle logiche manicomiali (vedi). Il documento rivela un profondo stato di insofferenza e malcontento che data evidentemente da molti decenni in parti importanti degli operatori.

Dal titolo si evidenzia l’allarme per lo scivolamento dei servizi di assistenza psichiatrica pubblica italiani verso stili e culture neomanicomiali che sarebbero propri del Decreto legge 52/2014, non tanto nella versione licenziata dal Governo, quanto in quella  emendata e approvata dalla Camera in via definitiva il 28 maggio scorso.

In particolare, si denuncia che non sarebbe garantita la valutazione multiprofessionale[1] da cui dipende la possibilità di percorsi differenziali, attenti e rispettosi della specificità delle singole situazioni (psicopatologiche?), della declinazione delle stesse nelle vite di soggetti autori di reato, non imputabili in quanto “incapaci di intendere e di volere”. La conseguenza temuta è che sui Dipartimenti di salute mentale (Dsm) si scaricherebbero vite e situazioni psicopatologiche che potrebbero meglio essere gestite da Sert, Noa, servizi che si occupano di persone con deficit cognitivo, con esclusione dei soggetti a forte attitudine criminale non imputabili ex articolo 88 Codice penale.

Le società scientifiche mediche vogliono assolutamente evitare che i servizi pubblici di assistenza psichiatrica siano travolti da una modalità di chiusura degli opg che non tenga conto delle diversità delle persone e non rispetti le competenze professionali e trattamentali  oggi disponibili.

Ricordo che al tempo del manicomio (come noto, nel manicomio finivano tutte le forme di devianza di interesse psicopatologico e comportamentale) rimase per molti anni aperta la discussione fra gli psichiatri che sostenevano la necessità di una radicale riorganizzazione degli spazi interni secondo le diagnosi (schizofrenici, depressi, epilettici, alcolisti, sindromi psico-organiche ecc.) anziché secondo l’intensità dell’impegno di cura e custodia (Alta Sorveglianza, reparti per lavoratori, per sudici ecc.). A parte i reparti per alcoolisti, questa proposta non fu mai messa in pratica e, in fase di superamento del manicomio, in molti manicomi, la ri-classificazione e la ri-ripartizione dei pazienti avvenne seguendo invece il criterio della territorialità (“settore” psichiatrico).

Chiusi i manicomi pubblici una quindicina di anni fa, le Regioni si sono dati assetti organizzativi, gestionali assai diversi: ad esempio, in Lombardia, Dsm, Sert, Noa, servizi per disabili psichici appartengono ad aziende fra loro diverse; i servizi per la salute mentale dell’infanzia e dell’età evolutiva possono gravitare sulla Pediatria piuttosto che sul Dsm, la psicogeriatria non ha ancora una precisa collocazione fra Geriatria, Neurologia, Dsm. Per dire che nel tempo post-manicomiale, per ragioni varie, spesso meri interessi di bottega, molti steccati sono stati eretti fra squadre di operatori che pure hanno ( o dovrebbero avere) come scopo comune la promozione della “salute mentale” delle persone con problema e della popolazione.

La realtà è che la chiusura degli opg come proposta dalla legge di conversione approvata alla fine di maggio, ha sconvolto le acque dello stagno dell’assistenza psichiatrica pubblica italiana che non si attendeva di essere chiamata bruscamente in causa responsabilizzata, nella contrattazione e predisposizione di percorsi alternativi all’internamento, nella “presa in carico”, che è qualcosa di diverso dal formulare una diagnosi, sia pure “collegiale”. Ne è controprova che i firmatari dell’appello non si sono altrettanto scandalizzati sulla proposta di rinchiudere nelle REMS tutti gli internati in opg, al posto dell’opg.

In questi 15 anni, sulla base delle esperienze di superamento del manicomio, la comunità scientifica degli esperti della salute mentale ha lavorato e prodotto molto. Fra gli atti e le norme cito l’International Classification of functioning, disability and health (OMS, 2001)  che integra il “modello medico” con il “modello sociale” della disabilità fornendo una nuova prospettiva delle dimensioni della salute a livello biologico, individuale e sociale.

Ricordo che nella psichiatria manicomiale, non era necessario un lavoro comune fra staff curante e persona con diagnosi psichiatrica in ragione delle presunte “pericolosità sociale” e “incapacità di intendere e di volere” di quest’ultima,  e perché la diagnosi di malattia mentale assegnava automaticamente a un destino di vita senza libertà e diritti. Che termini come “incapacità di intendere e di volere” tornino nella Carta per il superamento delle logiche manicomiali in un documento che si vuole “antimanicomiale” è davvero preoccupante perché mostra l’ignoranza , comunque la sottovalutazione, delle nuove e diverse declinazioni sperimentate nelle relazioni di cura, aiuto, accompagnamento e codificate nella Legge 9 gennaio 2004 n. 6  per l’Amministratore di sostegno, che ha modificato il Codice Civile, consentendo di superare le figure del tutore e del curatore.

Il Progetto obiettivo nazionale tutela della salute mentale 1998-2000 (DPR, 10 novembre 1999)  affermava:

Nella progettazione delle attività atte a contrastare la diffusione dei disturbi mentali, i servizi di salute mentale, pur senza trascurare la domanda portatrice di disturbi mentali medio-lievi, devono dare, nell’arco del triennio, priorità ad interventi di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi mentali gravi, da cui possono derivare disabilità tali da compromettere l’autonomia e l’esercizio dei diritti di cittadinanza, con alto rischio di cronicizzazione e di emarginazione sociale. A questo fine occorre:

  • assicurare la presa in carico e la risposta ai bisogni di tutte le persone malate o comunque portatrici di una domanda di intervento;
  • attuare, tramite specifici protocolli di collaborazione fra i servizi per l’età evolutiva e per l’età adulta, interventi di prevenzione mirati alla individuazione nella popolazione giovanile, soprattutto adolescenziale, dei soggetti, delle colture e dei contesti a rischio, con lo scopo di contenere e ridurre evoluzioni più gravemente disabilitanti.

Le azioni più opportune, per realizzare tali interventi, sono:

  • a) l’attuazione da parte dei servizi di salute mentale di una prassi e di un atteggiamento non di attesa, ma mirati a intervenire attivamente e direttamente nel territorio (domicilio, scuola, luoghi di lavoro, ecc.), in collaborazione con le associazioni dei familiari e di volontariato, con i medici di medicina generale e con gli altri servizi sanitari e sociali;
  • b) la formulazione di piani terapeutico-preventivi o terapeutico-riabilitativi personalizzati, con assegnazione di responsabilità precise e di precise scadenze di verifica;
  • c) l’integrazione in tali piani dell’apporto di altri servizi sanitari, dei medici di medicina generale, dei servizi socio assistenziali e di altre risorse del territorio, in particolare per quanto riguarda le attività lavorative, l’abitare e i cosiddetti beni relazionali (produzione di relazioni affettive e sociali);
  • d) l’applicazione delle strategie terapeutiche giudicate di maggiore efficacia, alla luce dei criteri della medicina basata su prove di efficacia (Evidence based medicine);
  • e) il coinvolgimento delle famiglie nella formulazione e nella attuazione del piano terapeutico; si sottolinea che tale coinvolgimento deve essere ovviamente volontario e che la responsabilità dell’assistenza è del servizio e non della famiglia;
  • f) l’attivazione di programmi specifici di recupero dei pazienti che non si presentano agli appuntamenti o che abbandonano il servizio, in modo anche da ridurre l’incidenza di suicidi negli utenti;
  • g) il sostegno alla nascita e al funzionamento di gruppi di mutuo-aiuto di familiari e di pazienti e di cooperative sociali, specie di quelle con finalità di inserimento lavorativo;
  • h) l’effettuazione di iniziative di informazione, rivolte alla popolazione generale, sui disturbi mentali gravi, con lo scopo di diminuire i pregiudizi e diffondere atteggiamenti di maggiore solidarietà. Ciò aumenterebbe, fra l’altro, la possibilità, di indirizzare i malati gravi ai servizi di salute mentale.

Il Decreto di chiusura degli opg, come modificato, ha dietro di sé tutte le indicazioni e le argomentazioni che ho riportato. Nella reazione delle Società scientifiche non ve ne è traccia. Vi è quindi un evidente problema di trasmissione della storia dell’assistenza psichiatrica pubblica e dell’evolversi delle norme relative. Lo si è colto nell’intervento alla Camera del deputato Andrea Cecconi (M5S), trentenne, laureato infermiere professionale che il 28 maggio così ha motivato le ragioni del no suo e del suo gruppo al Decreto:

Ho lavorato per due anni all’interno di un carcere somministrando la terapia ai detenuti. […] Ho lavorato per quasi due anni anche all’interno di un reparto di psichiatria. […] Vi posso garantire, cari colleghi, che lavorare e operare in un carcere o in psichiatria non è facile. Abbiamo migliaia di professionisti che giornalmente si adoperano affinché le persone detenute e i malati psichiatrici ricevano cure e assistenza. […] Ma lo sapete cosa significa prestare servizio in una psichiatria e trovarsi davanti un paziente completamente fuori di sé che ti aggredisce o aggredisce i tuoi colleghi? Sapete come ci si sente da professionisti della salute preparati a prendersi cura dei propri assistiti ad aspettare che arrivi la volante della Polizia perché hai in reparto un paziente psichiatrico che sta completamente distruggendo il mobilio e le attrezzature? Lo sapete cosa significhi lavorare con la paura?  Bene, colleghi, io lo so e lo sanno tutti gli addetti […] che quello della sicurezza è un problema irrisolto. […] Oggi all’interno degli opg ci sono soggetti che, contro la loro volontà ovviamente e a causa della loro patologia, sono pericolosi sia per se stessi sia per il prossimo.

Dalle sue parole si capisce la paura, il disagio del deputato Andrea Cecconi, ma anche il fatto che né nel corso di psichiatria né nelle esperienze di tirocinio in ambiti psichiatrici egli ha incontrato maestri e professionisti che hanno raccontato perché fra le ragioni del trattamento sanitario obbligatorio non c’è la “pericolosità” e che si sono mosse  mostrando come si fa a gestire le relazioni con persone che esprimono aggressività chiamare le Forze dell’Ordine, senza legarle, magari tenendo le porte aperte del “reparto”.

Nella Carta per il superamento delle logiche manicomiali non si parla di carenza di soldi, non si chiedono finanziamenti allo Stato. Perché si parla di “potere”, potere medico. È quindi un’occasione molto importante, e spero che la “rivolta” di una parte dell’establishment della psichiatria italiana contro il Decreto di chiusura degli opg  diventi occasione di una discussione pubblica seria che tocchi anche i contenuti dei programmi delle scuole universitarie in cui si formano medici psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori professionali, infermieri professionali. Credo che attraverso questa strada si possano mettere a fuoco le ragioni “culturali” delle difficoltà del lavoro per la salute mentale in Italia dal versante degli operatori e dei Dsm, per riuscire a superarle.

Luigi Benevelli

Mantova, 4 giugno 2014


[1] Gli estensori del testo parlano di una “valutazione multi professionale” della non imputabilità. Andrebbe chiarito se con il termine multi professionale ci si riferisca alle professioni medico-psichiatriche e del diritto (avvocati, giudici e magistrati) o anche alle professioni di aiuto e cura non mediche, (educatori , assistenti sociali, tecnici della riabilitazione, infermieri professionali ecc.) che fanno parte delle equipes.

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