di Piero Cipriano
Vorrei esprimere due o forse tre considerazioni sul libro (La repubblica dei matti) che John Foot ha dedicato a Franco Basaglia e alla psichiatria radicale in Italia, un libro a mio parere incompleto, probabilmente imperfetto (ma come poteva essere altrimenti, con un tema di tale portata?), tuttavia necessario, necessario e forse unico nel suo genere, perché, come trovo scritto in una sua recensione, è un libro che non chiude il discorso sulla psichiatria radicale italiana negli anni 60-70, ma lo riapre, e lo riapre dal punto di vista di chi senz’altro non può dirsi un basagliano, e proprio perché libero dal sospetto di agiografia e basagliocentrismo il libro rende un servizio ancora più grande, a me pare, alla figura di Franco Basaglia, che della psichiatria radicale italiana è stato la massima espressione.
La prima considerazione, dunque.
La prima impressione è che Foot sia stato così tanto affascinato, stregato dal laboratorio di Gorizia, dove tutto iniziò, dove il primo manicomio fu reso un’altra cosa, quanto meno lo sia stato dalla storia di Trieste, dove l’impresa fu portata a compimento, dove la lunga marcia iniziata a Gorizia trovò la sua conclusione nell’eliminazione di un manicomio, del primo manicomio al mondo (e poi di tutti gli altri manicomi d’Italia, grazie alla legge che ne derivò).
Basta solo contare (nonostante, ahimè, in questo libro manchi l’indice) il numero dei capitoli, ben undici su ventuno sono dedicati a Gorizia, uno soltanto è riservato a Trieste.
Gorizia viene raccontata, a tratti rassomigliando più a un romanzo che a un saggio (e ciò è bello), in tutti i suoi aspetti cruciali: il ruolo decisivo di Franca Ongaro, non semplice comprimaria o addirittura segretaria (come da qualcuno è stata definita) ma, secondo Foot, la principale artefice degli scritti a due mani col marito o meglio, colei che redigeva le idee disordinate del marito; l’arrivo, per certi versi eroico, del soccorso intellettuale di Giovanni Jervis; la creazione del best-seller, la bibbia sessantottesca che racconta l’impresa di portare la democrazia in quel manicomio (L’istituzione negata, che rende famosi i goriziani, favorendone la successiva diaspora in altri manicomi d’Italia); il giornale redatto dai pazienti (Il picchio, in cui gli internati stessi raccontano i cambiamenti in atto); la descrizione, meticolosa, della prima e della seconda e della terza equipe goriziane; l’incidente, che fornisce, probabilmente, il pretesto a Basaglia per concludere l’esperienza goriziana, diventata ormai una gabbia dorata, sia per gli internati che per i medici, una sorta di manicomio perfetto che, in assenza di servizi territoriali esterni (non creati per l’ostilità di un’amministrazione provinciale destrorsa), non avrebbe mai permesso ai suoi abitanti, gli internati diventati in larga parte degenti volontari, di trovare il coraggio per affrontare l’esterno.
Trieste, al contrario, è raccontata più velocemente. Un solo capitolo, appunto, in cui si descrive, in maniera impressionistica, in che modo s’è conseguita questa “fine del manicomio”, come si è passati dai 1182 internati del 1971 agli 87 del 1978, e come tutto ciò che a Gorizia era stata sperimentazione e scoperta, per tutti gli anni 60, lì viene realizzato molto più speditamente, correggendo, oltretutto, gli errori che avrebbero potuto fare anche del manicomio di San Giovanni una gabbia dorata, un’altra comunità terapeutica perfetta, e dunque rimuovendo il decisivo ostacolo alla dimissione definitiva dei pazienti. A Trieste tutto procede con più rapidità (e rapida e sommaria è la descrizione che Foot ne fa). In una prima fase (anni 71-74) si realizzano i cambiamenti che a Gorizia avevano avuto luogo in almeno 6-7 anni: apertura dei reparti, abolizioni delle coercizioni e delle contenzioni, divisione dell’ospedale in settori, abolizione dell’assemblea generale, che pure era stata il fulcro della comunità terapeutica goriziana. Nella seconda fase (anni 74-78), invece, tutto prende una coloritura più politica e massmediatica. Nonostante a Trieste non si pubblichi mai un testo paragonabile a L’istituzione negata, o un documentario del calibro de I giardini di Abele, nonostante gli incidenti (ben due, con accuse di omicidio colposo per quattro psichiatri del manicomio, tra cui lo stesso Basaglia), i pazienti continuano a essere dimessi, grazie ai centri di salute mentale creati nel territorio (cosa che a Gorizia non era stata possibile, abbiamo detto, per l’ostilità dell’amministrazione), grazie alla creazione delle cooperative di pazienti lavoratori, e poi sembra un manicomio che si avvia senza troppi ostacoli verso la sua estinzione anche grazie alla visibilità che deriva dagli eventi teatrali, musicali, happening nel manicomio stesso, e Marco Cavallo, e la gita in aereo, eccetera. Insomma, la capitolazione del manicomio triestino sembra essere molto veloce, perfino semplice, o una mera replica delle esperienze di Perugia e Reggio Emilia, per come la sbriga Foot.
Lo spazio narrativo che non riceve Trieste viene dato, in compenso, alle altre esperienze che in Italia resero possibile un’alternativa al manicomio (Perugia, Arezzo, Parma, Reggio Emilia), perché scopo del libro è, anche, dimostrare che la riforma dell’assistenza psichiatrica in Italia non è stata merito di un solo uomo.
Perugia, secondo Foot, è “l’esempio perfetto”, il laboratorio più avanzato in Italia, tant’è che la legge 180 del ’78, con l’istituzione dei repartini psichiatrici ospedalieri, rappresentò un arretramento per una regione che da molti anni aveva reso esclusivamente territoriale l’assistenza psichiatrica. Probabilmente tale modello perfetto a Perugia fu possibile per l’eccellente sinergia della politica (l’assessore Rasimelli che, anticipando perfino la legge Mariotti del 68, riuscì in pochi anni a istituire ben dieci centri di igiene mentale in tutta la regione) coi tecnici, tra i quali la figura di maggior rilievo fu quella di Carlo Manuali, uno psichiatra per alcuni versi simile a Basaglia, uno mai contento dei risultati conseguiti, forse perfino più radicale: sua era la convinzione che “i Cim stessi fossero destinati a sparire (come il manicomio), e che si dovesse lavorare nelle fabbriche e nelle scuole”. Grazie a questa sinergia perfetta si riuscì, nei primi anni 70, ad aprire una decina di Cim per favorire la cosiddetta “politica del non ricovero”. Se c’è un limite, nell’esperienza perugina, forse fu quello di non produrre mai un testo equivalente a L’istituzione negata, che gli consentisse di ottenere una visibilità che oltrepassasse i confini geografici umbri. E voglio ricordare, a supporto di ciò, quel che disse Basaglia, in una delle sue Conferenze brasiliane, disse che al mondo c’è bisogno sia di inventori che di narratori, che forse sono necessari entrambi. A Perugia, probabilmente, a differenza dei goriziani, che si fecero anche narratori della loro invenzione, della loro scoperta (la libertà è terapeutica), a Perugia Manuali e gli altri non riuscirono a raccontare al resto d’Italia la loro esperienza. E questo fu certamente un limite.
Invece Parma, ancor più di Perugia, se vogliamo, è la dimostrazione di quanta responsabilità politica ci sia nella dinamica dell’internamento, dell’espulsione del folle dal consesso sociale. Nel manicomio di Colorno, infatti, il disinternamento, lo svuotamento, la liberazione, iniziò ben prima dell’arrivo (per soli dieci mesi, nel 1970), di Franco Basaglia. Qui il “vulcanico” assessore provinciale Mario Tommasini, aveva già, nei cinque anni che precedettero l’arrivo di Basaglia, fatto dimettere circa trecento persone dal manicomio. Come? Da politico. Facendo ciò che la politica dovrebbe fare: offrendo un lavoro, mettendo a disposizione case, appartamenti. Tant’è che quando Basaglia, nel 1970, arrivò a dirigere Colorno, trovò che una rivoluzione era già in corso, e il protagonista era Mario Tommasini. E’ anche per questo motivo, sostiene Foot, che Basaglia preferirà andare a dirigere il manicomio di Trieste, ancora intatto rispetto alle riforme, e con un presidente della provincia, Michele Zanetti, che non avrebbe interferito col suo lavoro.
L’altro “goriziano” Jervis, fu chiamato a dirigere i servizi territoriali della provincia di Reggio Emilia. Non l’enorme manicomio di san Lazzaro, però, un contenitore di quasi duemila internati, che era gestito non dalla provincia ma da una fondazione religiosa, e che mantenne un direttore (Benassi) di vecchio stampo. Per cui fu di certo penalizzato nel non poter agire su entrambi i livelli, manicomio e territorio, potendo insistere soltanto su quest’ultimo. E nonostante un lavoro verosimilmente sfibrante (i pazienti venivano spesso visitati a domicilio, o nel loro quartiere), nonostante le simboliche seppur inutili calate (centinaia di persone, ispirate per lo più dall’altro leader dell’equipe reggiana, Giorgio Antonucci, calarono sul manicomio di San Lazzaro per verificarne le condizioni di degenza), il manicomio non si estinse, continuando a funzionare per tutti gli anni 80.
Pirella, il secondo direttore di Gorizia, fu chiamato, da un altro assessore antimanicomiale, Bruno Benigni, a dirigere il manicomio di Arezzo. Lì importò il modello goriziano, con le assemblee e la comunità terapeutica, ma, a differenza di Gorizia, e come a Perugia e Reggio Emilia, fu svolto un notevole lavoro sul territorio.
Insomma, la prima considerazione/domanda/perplessità è: ma come mai Foot non insiste, dopo la giusta e avvincente narrazione di Gorizia e degli altri poli della psichiatria radicale italiana (Perugia, Parma, Reggio Emilia, Arezzo; anche se pure Ferrara con Antonio Slavich, e Nocera inferiore con Sergio Piro, avrebbero meritato qualche capitolo), con una narrazione altrettanto approfondita ed entusiasta di Trieste? Come mai semplificarla e schematizzarla in modo così apparentemente… svogliato? La mia ipotesi è che l’esperienza triestina sia stata molto più complessa di tutte le altre, con molti più attori (erano un paio di centinaia gli operatori coinvolti, a vario livello, e non si poteva certo nominarli uno per uno, come è stato possibile fare per Gorizia), e, per certi versi, ancora in corso, perché il dipartimento di salute mentale triestino è, ancora, un luogo originale, peculiare, di sicuro unico, dove si fa salute mentale in un certo modo. E dunque, la mia ipotesi è che Foot abbia, al contrario, così tanto materiale, da essere riuscito, per ora, solo ad accennare a quanto è successo a Trieste, e dunque Trieste, probabilmente, merita un secondo libro, un libro tutto per sé.
La seconda considerazione riguarda il modo con cui la mitica legge 180 (che Foot, giustamente, ci ricorda non essere più in vigore, durata soli otto mesi, poi riassorbita nella legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) è stata approvata. Legge che oggi riteniamo, a ragione, la più libertaria al mondo in tema di salute mentale, ma che allora fu, per Basaglia e altri psichiatri radicali, un compromesso o perfino una sconfitta. Nei mesi precedenti il maggio del 1978 in cui tante cose succedevano (il ritrovamento del cadavere di Moro, la legge 194), Basaglia e gli altri psichiatri radicali non erano per niente soddisfatti della proposta di riforma psichiatrica che si stava discutendo in Parlamento. Due aspetti della legge, più degli altri, li lasciavano perplessi: il trattamento sanitario obbligatorio, che alcuni non esitavano a definire un vero e proprio “arresto medico”, o “fermo sanitario”, o “sequestro ospedaliero”; e l’apertura dei piccoli reparti psichiatrici negli ospedali generali, che secondo Basaglia rischiavano di diventare dei “piccoli manicomi dentro i già inefficienti ospedali civili”. Difficile oggi a credersi, ma questa che consideriamo la legge più libertaria, fu definita da Basaglia (alcuni mesi prima della sua approvazione) “antidemocratica”, e il TSO una “criminalizzazione” del malato.
E tuttavia è ovvio che questa legge fu quanto di meglio ottenibile allora. Per due ragioni. Da un lato c’era il referendum dei radicali che incombeva, e se ci fosse stata la consultazione referendaria, non era affatto scontato che gli italiani votassero per abolire la legge 36 del 1904 e con essa i manicomi (sostiene, a ragione, Pietro Barbetta, in una recensione a questo libro, che “la stragrande maggioranza della popolazione, a Trieste e ovunque, era contraria al trattamento psichiatrico senza contenzione”, perché in fondo “le masse pensano che i matti siano pericolosi”). D’altro canto, se è vero che la politica è l’arte del possibile, con i politici delle commissioni sanità con cui fu approvata questa legge (per esempio c’era il democristiano Paolo Cirino Pomicino, o la repubblicana Susanna Agnelli, o lo psichiatra democristiano Bruno Orsini primo firmatario della legge, o la democristiana Maria Eletta Martini, che si consultava con lo psichiatra scrittore Mario Tobino, feroce oppositore dei novatori, come li chiamava lui), probabilmente, più e meglio di così, nel 1978, non si poteva ottenere. Questo fu il massimo possibile: eliminare i manicomi, eliminare il criterio della pericolosità o dello scandalo. Non si riuscì, invece, a inserire, in questa vaga legge (legge quadro, appunto), alcuni temi cruciali, quali, per esempio, l’abolizione dell’uso delle fasce, pratica questa che, salvo in alcuni luoghi, non ha mai cessato di esistere.
Ad ogni modo, fatta la legge, Basaglia, molto pragmaticamente fece in modo di farsela piacere, e pure di assumersene la paternità (e in effetti è conosciuta come legge Basaglia, definizione impropria), sostenendo: “noi psichiatri democratici, pur avendo stimolato la nuova legge, siamo una minoranza, ma egemonica… però dobbiamo vigilare…”, eccetera.
Col senno di oggi direi che le perplessità maggiori, di Basaglia e degli psichiatri più radicali, erano sacrosante, e si sono puntualmente realizzate. I trattamenti sanitari obbligatori non sono mai stati l’extrema ratio, l’eccezione al ricovero, che di norma avrebbe dovuto essere volontario, ma sono effettuati in maniera facile e stereotipa, nonostante fosse stato previsto, apposta per renderlo difficile, il concorso di ben quattro attori (due medici, anche se talvolta accade che sia lo stesso medico a compilare i due moduli, quello di proposta e quello di convalida; un sindaco; un giudice tutelare), per cui, il timore che potesse trasformarsi in una sorta di sequestro medico mi pare si sia avverato. Ma l’altro timore pure, si è realizzato. I 320 piccoli reparti psichiatrici ospedalieri (SPDC), nell’80% dei casi, sono diventati proprio i “piccoli manicomi” che presagiva Basaglia, e come altro chiamare dei reparti con le porte sempre chiuse (contenzione ambientale), dove vengono somministrati farmaci a scopo sedativo più che terapeutico (contenzione chimica), e vengono legate le persone più indomite (contenzione meccanica)?
Ma d’altronde, una riforma ancora più radicale (voglio dire: senza TSO e repartini ospedalieri e senza fasce) avrebbe avuto bisogno di una cultura, e di una società, democratica davvero; invece “la gente è quello che è, i medici sono quello che sono, gli ospedali pure” (sempre Basaglia, nel 1977). E ancora, nel 1979, in una di quelle straordinarie conferenze in Brasile, ci rivelò che siccome la maggioranza della società italiana, e degli psichiatri stessi, continua a pensare che il malato di mente è pericoloso e va custodito, “abbiamo dovuto violentare la società”, costringendola a riprendersi il folle che per due secoli ha espulso nei manicomi. Una minoranza di psichiatri, che per alcuni anni s’è fatta egemone, è riuscita a imporre l’eliminazione dei manicomi che la maggioranza degli psichiatri stessi, e della società, non voleva affatto.
Insomma, questa era la seconda considerazione che avevo in mente.
Magari ce n’è una terza.
E cioè: questa bella storia, la storia di questa rivoluzione raccontata da Foot, ora, è quasi giunta ai titoli di coda, al (purtroppo) non lieto fine. Le previsioni di Basaglia, a proposito dei difetti, dei limiti della legge, su cui bisognava vigilare, si sono decisamente inverate. Il fascino discreto del manicomio non è mai venuto meno. La logica dell’internamento è rimasta, probabilmente in una forma più subdola, meno appariscente, nella modalità del manicomio illimitato, per dirla con Foucault. Un manicomio invisibile, fatto di diagnosi, farmaci, perizie, luoghi di custodia che si palleggiano i ricoverati, in un continuo internamento transeunte, due settimane in SPDC, poi due mesi in Casa di Cura privata, poi tre mesi in Comunità Terapeutica, poi un mese di ritorno a casa ma con frequentazione del Centro Diurno a fare ceramiche, poi una nuova crisi, magari con un reato, e si ricomincia con una settimana in SPDC, poi eventualmente in OPG, poi forse REMS, eccetera. In un anno, certi pazienti, non ci fanno mai ritorno a casa. Sempre internati sono. Eppure, i manicomi sono aboliti per legge.
Però, ormai lo sappiamo, anche grazie a questa bella e necessaria e incompleta narrazione di Foot, che “l’impossibile è stato possibile”, in quegli anni formidabili, in quegli anni in cui si giocava all’attacco. Ora pare di nuovo che quel possibile sia impossibile, in questi anni tristi di gioco in difesa. Però, almeno, stavolta lo sappiamo che è stato possibile… e dunque, quando saremo di nuovo pronti a dare l’assalto ai manicomi, sappiamo che si potrà fare.
2 Comments
Buongiorno. Sono John Foot, autore del libro discusso qui (e da Peppe dell’acqua in un altro post). Ringrazio tutti a due per la discussione del libro. Mi piacerebbe anche rispondere sul qualche punto (sul materiale e Trieste Cipriano ha azzeccato benissimo quello che e successo con mio libro). Sarebbe utile rispondere qua? Grazie ancora, John Foot
Caro Piero, io ho sentito l’intervista di J.Foot a L’eco della storia, in cui l’autore ha scritto tutto quello che era lecito sapere in Inghilterra su la Riforma basagliana Il rapporto con l’antipsichiatria inglese, la rottura dei muri a Gorizia,lutpia della realtà,il movimento creatosi intorno a Basaglia, La sua idea di comunità terapeutica,la trasformazione della società in società dei diritti, il nuovo umanesimo,l’utopia della realtà. Poi lo stesso Foot ha detto che avrebbe douto continuare a studiare , le soluzioni e i progetti di Trieste, gli altri libri di Bsaglia e le soluzioni, i progetti dopo la chiusura. Ha aggiunto che il libro era solo una parte di quello che stava raccogliendo di documentazione e di soluzione. Pertanto tu gli dici quello che dovrebbe aggiungere e la regressione di punti cui era giunto Basaglia.E su questo, sulle tre fasi della riforma basagliana,dovrebbe lavorare J. Foot.Sottolineando che oggi si sta tornando indietro,con tutto quello che narri perfettamente nel tuo articolo.Io aggiungo che il Centro salute mentale di Napoli (Monte di dio) è chiuso, che Capua ,Csm fondato da Rotelli e Giovanna del Giudice è diventato l’ombra di se stesso. Funziona poco, e non si fanno riunioni collettive , nè visite.Oggi si va in ospedale per TSO a lunga durata.Hai perfettamente ragione, ma se tagliano il servizio sanitario, come sarà possibile fare progetti?. Grazie,Piero
Gloria Gaetano