Un anno fa ho incontrato Francesco. Mi ha raccontata la sua storia di persona legata a un letto d’ospedale. Ho pubblicato un suo scritto ne Il manicomio chimico, nel capitolo Ivàn Fëdorovič e il sinedrio di bioetica. Francesco preferiva non comparire col suo vero nome. Pensava di aver chiuso con la psichiatria. Alla luce del suo recente, attuale ricovero, ha capito che non è così. Pubblicai la storia del suo primo ricovero, e della sua contenzione preventiva, perché volevo che questa sua storia, di vittima della psichiatria, di vittima di una psichiatria che sequestra le persone, e le tortura, fosse conosciuta, facesse scalpore, mettesse paura, scandalizzasse, scuotesse le coscienze. Ne ho conosciute centinaia, di storie come la sua, seppure sempre dall’altra parte della barricata che separa i non ragionevoli da noi ragionevoli dottori. Però, una storia raccontata come l’ha raccontata lui non l’avevo mai letta. Anche perché Francesco ha notevoli doti di scrittura. A vent’anni è entrato nella cinquina del premio Campiello giovani. Quando lo incontrai, un anno fa, ci trattenemmo a parlare al tavolo di un bar, in via Cola di Rienzo, con davanti un tè verde io e un succo di frutta lui. Alto magro e barbuto come uno dei tre fratelli Karamazov. Esordì dicendosi stupito del fatto che non siano molti gli psichiatri contrari all’uso delle fasce, nel paese di Basaglia. Figlio unico di genitori separati. Con la madre ha cambiato varie case e città. Alle scuole superiori legge molto. Scrive racconti. A vent’anni entra nella cinquina del Campiello Giovani. Poi l’università. Storia. Master in Inghilterra. A venticinque anni, un po’ d’ansia. Uno psichiatra gli dà del Tavor. Gli domando se si faceva le canne. Dice sì, molte. L’anno scorso l’accelerazione. Tanto studio, lavoro, progetti, canne. Va a vivere da solo. I pensieri sempre più veloci.
Tutto tornava. Aveva intuizioni su come cambiare le cose, il mondo. La certezza di poter convincere chiunque. Non era più necessario mangiare, bere, dormire. Bastava solo qualche canna. Finché la madre gli manda il medico di famiglia. Che gli misura la pressione e chiama il 118. Arrivano gli ambulanzieri nella sua mansarda. Apre. Ti devi ricoverare. Non voglio. Però capisce che è meglio assecondarli. Lui è mite. Non un solo accenno di aggressività o ribellione. Lo portano in pronto soccorso. Lì lo stile dei sanitari cambia. Arriva lo psichiatra. Uno che non lo guarda mai negli occhi. La specializzanda nemmeno, parla d’altro. Della sua tesi, invece che del motivo del suo ricovero. Prelievo. Flebo col tranquillante. Sonno. Risveglio. A letto. Legato. Tutta la notte. L’infermiere gli dice non ci posso far niente. Perché ora il medico sta dormendo ed è lui che decide. Domattina, se stai tranquillo, ti viene a sciogliere. Lui è mite. Rimane tranquillo. L’indomani mattina butta giù quattro pillole e gli levano le fasce. Resterà ricoverato quattro settimane. Dovrà prendere tre tipi di farmaci. Quando lo incontro, un anno fa, ne prendeva uno solo. Continuammo a parlare passeggiando per via degli Scipioni. Il cinema Azzurro Scipioni era aperto, entrammo, c’era Silvano Agosti alla cassa, parlammo un po’ con lui, non lo sapeva, che quel signore era uno degli autori di Matti da slegare. Ero quasi tentato di proporgli di venire con me, a parlare al Comitato Nazionale di Bioetica, dove avevo un’audizione proprio sul tema della contenzione, della sua esperienza di uomo legato inutilmente. Che motivo c’era di legarti? Contenzione preventiva? In molti posti fanno così. Legano per prudenza. Altro che stato di necessità.
Penso che basterebbe ascoltare Francesco, o leggere il suo diario di ragazzo coercito e legato, per far comprendere a chi non sa nulla di questo argomento che cos’è la contenzione al letto.
(modificato da Ivàn Fëdorovič e il sinedrio di bioetica, in Il manicomio chimico)