L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli è ospitato nella stessa struttura del carcere di Secondigliano. Da qui in poi lo chiameremo manicomio giudiziario, per comodità narrativa e per maggiore attinenza con la realtà. Lunedì 9 novembre, la nostra visita ha incrociato due storie che è difficile anche solo immaginare. La prima è di R.H., appena 21, che incontriamo seminudo, in una cella liscia. Il blindato è chiuso e la cella è spalmata di feci (scusate il termine, ma è così). Chiediamo di farci aprire il blindato, la cella è apparentemente vuota. Bussiamo e dopo un po’ dal bagno, dove si è rifugiato per il freddo, spunta R. Allunga la mano, chiede una sigaretta, comincia a parlare.
E’ presente, orientato, risponde a senso, visibilmente scosso. Ha un fratello a Modena, forse una ragazza, vuole tornare lì. Da sei giorni è così nudo, in una cella sempre più sporca. R. per protesta cosparge delle proprie feci i muri della stanza, la tira dietro a chi sente come minaccia. Agenti e psichiatri rimangono fermi a quattro metri di distanza mentre parliamo con lui. Da giorni nessuno gli parla, eppure i suoi compagni internati sembrano riuscire ad avere un rapporto con lui. La storia che ci racconta e che poi ricostruiamo dai registri è dura. Appena giunto nel manicomio giudiziario R. è stato legato al letto di contenzione, per quattro giorni filati. Gli è stata somministrata una terapia che non sappiamo, perché decifrare la grafia di uno psichiatra (che non c’è al momento della visita) è una cosa fuori dalla nostra portata. Dalla cella di contenzione è andato direttamente in cella liscia senza che nessun medico si interrogasse sul suo disagio, lasciandolo chiuso, isolato a dormire nudo per terra, senza posate per mangiare e bicchieri per bere. E quel che è peggio che a tutti questa pareva l’unica soluzione possibile. Il giorno dopo la nostra visita la cella è stata ridipinta.
G.R. ha invece un’altra storia che si intreccia con la nostra visita. Ha tentato il suicidio venerdì e allora, come premio forse o come terapia, è stato legato al letto di coercizione. Poi dopo due giorni, forse perché le sue condizioni sono migliorate sapendo che arrivavano ospiti, è stato liberato, alle ore 10.00 risulta dal registro di coercizione del reparto, mentre la delegazione attendeva da circa 40 minuti nella sala esterna che fosse autorizzato l’ingresso. Ma del resto sappiamo che la lettura di tre carte d’identità è impegnativa. Quando abbiamo visitato al cella con il letto di contenzione abbiamo visto le coperte ancora sfatte (e non vi sto qui a raccontare l’odore) e i moschettoni per le cinghie in posizione per l’uso.
Su entrambe le vicende è stata presentata un’interrogazione all’Assessore regionale alla Sanità, considerato che la parte dell’assistenza psichiatrica è, o meglio dovrebbe, essere compito delle Asl. Ci sarebbe anche da raccontare degli altri 125 internati di questo manicomio la cui unica attività sembra essere quella di ciondolare nei corridoi (quando le celle sono aperte) per i più attivi, di giacere stesi a letto per i cronici, di rimanere chiusi sempre in cella per i “problematici”, di fumare, e questo vale per tutti, una sigaretta dopo l’altra fino a che le dita divengono gialle.
Certo ci sarebbe ancora molto da dire, ma viene spontaneo chiedersi se c’è ancora qualcuno disposto ad ascoltare o se dobbiamo rassegnarci a queste terre di mezzo, tra il carcere e il manicomio, che solo per inganno portano il nome di ospedale.
(Articolo pubblicato su Terra il 12 novembre 2009)
Tratto da: http://www.linkontro.info