Nulla è più potente del dialogo. E niente ha in sé più possibilità di salute della rete umana che si crea attraverso il dialogo. Si potrebbe riassumere così il messaggio della giornata nazionale di studi tenutasi il 21 maggio scorso nella Casa di reclusione di Padova intorno a una delle questioni più difficili di sempre: “Spezzare la catena del male”. Un titolo fortemente simbolico per un incontro che ha fatto battere il cuore a quell’Italia fondata sulla verità e sulla giustizia e ai tanti e tanti italiani che non sanno né vogliono rinunciarvi. Disposti a difenderle a qualsiasi prezzo. Ben sapendo che non lo si può fare senza la complicità di una informazione coraggiosa e onesta, e per questo dando la parola introduttiva al presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto Gianluca Amadori. «Da lavorare c’è tanto», ha detto «e noi giornalisti vogliamo farlo bene il nostro lavoro, vogliamo sapere di che cosa scriviamo. Se talvolta non lo facciamo, non è soltanto colpa nostra. È colpa anche degli editori che non vogliono giornalisti preparati, che risparmiano sulla qualità, la competenza, la professionalità».
Promosso e organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti assieme al Centro Documentazione Due Palazzi, la Casa di reclusione di Padova e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia con il patrocinio del Ministero della Giustizia, quello di venerdì è stato un incontro denso di emozioni, che ha visto dialogare i familiari di vittime di reati e quelli di chi invece li ha commessi e perciò privato della libertà. Ma anche di chi, entrato in carcere e non di rado per reati minori e in attesa di giudizio, non ne è mai uscito vivo. Vittima di una «morte sospetta», una delle tante su cui le Procure sono tenute a indagare, il più delle volte nel silenzio dei Media e nell’assenza dell’opinione pubblica, distratti dallo schiamazzo generale.
Un faccia a faccia per nulla scontato, tra cittadine e cittadini che portano nomi come Agnese Moro, figlia di Aldo Moro. Sabina Rossa, figlia di Guido, operaio ucciso dalle BR. Giorgio Bazzega, figlio di Sergio, maresciallo di polizia ucciso dal brigatista Walter Alasia. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane morto il 22 ottobre 2009 a Regina Coeli dopo 6 giorni di detenzione e che difficilmente dimenticheremo. Le fotografie del suo corpo sfigurato hanno fatto il giro del mondo, tenuto in ostaggio prime pagine e titoli in stampa grossa, aperto un’indagine per omicidio contro ignoti e scavato nella coscienza di un intero paese, costringendolo a ricordarsi che sono le carceri il metro primo e ultimo della sua civiltà. E poi Edlira. Katia. Silvio. Marino. Mogli, padri, parenti e detenuti, figli di un dio minore della cronaca che nel raccontare a una platea di 600 persone venute da tutta Italia quanto duro sia trovarsi dalla parte sbagliata del destino, hanno lanciato una sfida che va ben oltre i singoli vissuti: la volontà di rompere non tanto un «Male archetipico con la M maiuscola» e astratto, bensì quel diffuso clima di «cattiveria sociale» che non risparmia nessuno. Convinti che cambiare si può. Che la società, il carcere stesso ma prima ancora il cuore umano, siano i luoghi privilegiati del cambiamento.
«Conosco il male perché anch’io so fare il male e l’ho fatto», ha testimoniato Agnese Moro. «E ho imparato che non si ferma da sé, se non c’è una decisione. Anche se dire basta non è sufficiente; bisogna essere in due a volerlo. Il male si ferma quando si ricuce un tessuto di umanità che è stato ferito». Che fare quando per l’altro il male è una scelta di vita, si è chiesto Lorenzo Clemente, marito di Silvia Ruotolo, uccisa a 39 anni per errore, durante un regolamento di conti tra camorristi. Trovando la risposta nel carcere minorile di Nisida, dove sono cresciuti gli assassini di sua moglie e dove fa il volontario con l’obiettivo di «levare figli alla Camorra».
Dall’altra parte del muro, un detenuto ha raccontato la sua esperienza in un progetto con le scuole, parlando di incontri «difficili, faticosi, che mettono in imbarazzo, obbligano a essere schietti, con se stessi prima di tutto». Ma determinanti per far capire, come è stato ribadito a più voci, che dietro al «mostro» c’è sempre una persona.
«Mio padre è stato ucciso dalle Brigate Rosse quando avevo appena compiuto tre anni», ha ricordato Silvia Giralucci giornalista e moderatrice dei lavori con Adolfo Ceretti docente di criminologia alla Milano-Bicocca e Ornella Favero direttrice di Ristretti Orizzzonti. «La sua morte, a 29 anni, è stata una tale devastazione nella famiglia, che mia madre, per trovare in qualche modo la forza di andare avanti, ha scelto di chiudere dentro di sé il suo dolore, e di non parlare più di lui. Ma ci sono voluti ancora anni, tanti, per accettare la sua morte, e anche oggi, dentro di me rimane sempre un senso di attesa. Poi qualche anno fa è successo che un laboratorio di teatro carcere ha organizzato una serata. Come giornalista, assistevo alle prove, quando mi accorsi che nel cortile antistante il teatro uno dei detenuti attori perdeva tempo a giocare tra i bambini. Lo trovai strano, e chiesi informazioni. Rimasi di sasso quando mi spiegarono che quei bambini avevano per la prima volta la possibilità di vedere il loro papà fuori dal carcere e di giocare assieme a lui. Mi sono resa conto allora che la nostra società, la società dei giusti, stava infliggendo a quei ragazzini la stessa pena che era stata inflitta a me, e che anche loro, assolutamente innocenti, avrebbero portato i segni di quella privazione per il resto della loro vita. Quella prospettiva ribaltata non mi ha più abbandonato. Questa esperienza è stata fondante in quello che ho cercato di essere e di fare. Anche nel lavoro, cerco sempre di scavare le ragioni profonde, e di comprendere anche le motivazioni di chi sento diverso da me».
Quel «diverso», che poi tanto diverso non è. E anzi, lo hanno affermato in molti, solitamente viene da una famiglia «come le altre», giacché il male può colpire chiunque e dovunque. In parole povere, non c’è una predestinazione a delinquere. E quando un figlio o un genitore o un fratello finisce in carcere, resta un essere umano. Tanto quanto lo sono i suoi cari, che troppo spesso diventano vittime di una comunità ingiusta e ipocrita. Di una «politica repressiva, che si fa scudo del dolore delle vittime a giustificare la necessità di pene disumane, in nome di ciò che chiama sicurezza sociale». I primi a pagarne le spese sono i figli, i più indifesi di tutti. «Ho preferito non vederla più mia figlia», ha raccontato un padre detenuto trattenendo a stento la commozione. «Come fai a spiegare a un bambino di quattro anni perché quando viene a trovare il papà deve togliersi le scarpe»?
Di «perquisizioni e umiliazioni durante le visite in carcere» ha parlato la compagna di un altro detenuto. Chiedendo, tra le lacrime: «A me e a mia figlia chi ci aiuta? A me chi me lo dà un lavoro? Per parlare con l’assistente sociale devi aspettare tre mesi. E quando il padre di mia figlia uscirà, chi glielo dà un lavoro? Non basta parlare delle nostre sofferenze, dovete fare qualcosa per aiutarci. Per favore aiutateci».
«Mio fratello ha sbagliato, ma doveva pagare in maniera diversa», ha detto Ilaria Cucchi. «Al di là della giustizia, che ci auguriamo venga fatta presto, il nostro problema principale è capire che cosa è successo, avere delle risposte, perché non c’è giustizia senza verità. Questa battaglia forse potrà evitare che quello che è successo alla nostra famiglia non capiti più in futuro. Ma è importante capire che se c’è una responsabilità, è dei singoli, non di tutta l’istituzione».
«L’istituzione deve avere il coraggio di andare a fondo del suo volto violento. È il solo modo per tutelare quello buono. Perciò è necessario che le due umanità si parlino tra loro. Dobbiamo sempre ricercare questa contaminazione umana, se non vogliamo restare divisi: da una parte io, che sono il carceriere, dall’altra parte tu, che sei il carcerato», ha confermato Lucia Castellano, direttrice della Casa di reclusione di Bollate.
Non si tratta quindi di non punire ciò che è sbagliato, colui che ha sbagliato. Né di dimenticare il male. Gli errori si devono pagare, ma nel rispetto della dignità umana.
Ed è proprio con la richiesta di pene più umane e rispettose dei diritti che si è concluso il convegno. «Non interessa a nessuno un carcere parcheggio», ha ribadito Ornella Favero. «Mettere dentro una persona, farla star male, non farla impegnare in alcuna attività e farla uscire peggio di quando è entrata. La società dovrebbe capire che il carcere deve essere un luogo di cambiamento. Non si può cambiare accatastando le persone nelle celle a non far niente».
«Dobbiamo fare in modo che l’obbedienza cieca che sempre produce cose terribili, diventi un’obbedienza intelligente e responsabile», ha invitato Ceretti, individuando nel modello di una «giustizia dialogica» il futuro di un altro carcere, di un’altra società e in fin dei conti di un altro vivere e convivere. Senza mai smettere di ricercare l’umanità dell’altro, quella regola etica non scritta dell’«Ubuntu» cara a Nelson Mandela. E che nella lingua africana bantu sta per: «Io sono perché noi siamo. E se tu vieni sminuito, mi sento sminuito anch’io. Se tu sei torturato, o ucciso, con te sono torturato e ucciso anch’io».
25 maggio 2010