Sono Elena: non una diagnosi, ma una persona piena di risorse.
Nelle librerie è uscito “Sono schizofrenica e amo la mia follia” (Meltemi), un memoir in cui una donna con disturbo mentale racconta la sua storia di emancipazione, riuscita grazie alla cura gentile nei servizi di salute mentale e al sostegno dei suoi familiari.
Elena Cerkvenič era laureata in lingue con 110 e lode, era sposata, insegnava tedesco nelle scuole. Poi un giorno, la follia è piombata nella sua vita come un fulmine a ciel sereno, mentre si trovava a Monaco di Baviera per un corso di perfezionamento. E da lì è iniziato il suo cammino all’interno dei servizi, che dimostra come la cura – quella vera, gentile, fatta di vicinanza, presenza e ascolto – possa davvero restituire la vita a una persona. Oggi la storia di Elena è diventata un libro, Sono schizofrenica e amo la mia follia, edito da Meltemi nella Collana 180 – Archivio critico della salute mentale.
Partiamo dal titolo: sono schizofrenica e amo la mia follia. Ce lo spiega?
Questo libro è il risultato di un lunghissimo percorso di consapevolezza rispetto alla diagnosi, che sappiamo è da mettere tra parentesi, come diceva Franco Basaglia. Io ho vissuto dei momenti, quando sono venuta a sapere della mia diagnosi in cui mi sono un po’ identificata con essa, che ha una connotazione molto negativa nella nostra società. È servito un lungo lavoro, mio sicuramente, ma anche dei servizi, per arrivare alla consapevolezza che in realtà schizofrenia, disturbo schizoaffettivo o depressione maggiore, insomma tutte le diagnosi, non hanno niente a che vedere con ciò che un individuo è come persona. Io sono una donna attiva, con molti talenti, opportunità e creatività. Perché quindi il titolo? Perché ho voluto dire che amo me stessa per quella che sono, anche avendo la diagnosi. E che ho gli stessi diritti di chi di diagnosi non ne ha.
Lei ha anche vissuto un’esperienza con un’istituzione, la clinica in Germania.
È stato terribile, era il primo esordio psicotico che ho vissuto e non sapevo cosa stesse accadendo. Questa pazzia è esplosa e in un attimo ha annullato tutto quello che avevo raggiunto fino a quel momento, la laurea, i progetti per il futuro. Sono stata portata in un’istituzione psichiatrica chiusa, di cui ricordo il bianco delle lenzuola, dei camici degli operatori e degli infermieri. Era come se questo avesse annullato totalmente la mia persona; l’unica cosa che mi dava speranza e fiducia quando ero lì era il pensiero che sarebbe venuto mio marito a prendermi. Ecco, avevo mantenuto la consapevolezza di essere sposata nel mio intimo, ma tutto il resto era stato spazzato via dalla mia mente, come se ci fosse stato un uragano. Non c’era più nulla di ciò che avevo raggiunto fino a quel momento, il fatto che fossi una giovane donna piena di sogni e di progetti. Sono stata annientata e mi trovavo in un luogo in cui ero messa lì, come un oggetto. Nessuno si occupava di me.
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