Loredana Di Adamo parla del libro di Elena Cerkvenič

“Ma perché vuoi scrivere e rendere pubblico tutto questo? Il racconto della tua vita, della tua malattia…” E col sorriso timido e dolce con il quale sempre riveste le sue parole, Elena mi ha risposto: “Perché voglio che si sappia che è possibile farcela. Che con la malattia si può convivere, che nonostante tutto si può vivere, e io vivo. Vivo anche una vita normale, e lo voglio far sapere, per aiutare chi magari pensa di non farcela…” ‒ dalla prefazione di Francesca De Carolis, p. 7

Ne “Sono schizofrenica e amo la mia follia” la narrazione di Elena Cerkvenič è toccante, e per me lo è ancora di più perché conosco Elena. Le sue parole commuovono, e portano a sentirsi insieme in quella fragilità che vorresti abbracciare e tenere al sicuro per sempre. Nella sua descrizione minuziosa risuonano le emozioni laceranti e brucianti di una sofferenza indicibile, ma anche il desiderio mai sopito di vita.

Qualcosa che accomuna Elena alle molte persone che vivono l’esperienza del disagio psichico, e a tutti noi che attraversiamo questa vita non senza fatica. Le storie di vita, come quella di Elena, sono un atto di grande generosità per chi legge perché si ha l’opportunità di incontrare idealmente chi scrive, di approssimare il suo mal-essere e conoscere qualcosa in più anche del proprio.

In tutto il racconto di Elena, il “saper essere-con-l’altro” assume un valore enorme. Nelle strade dell’animo ci si può smarrire in un disagio profondo, ma si può ritrovare la strada: questo è il messaggio della sua opera, a patto che vi sia qualcuno capace di starci accanto.

Dall’altro dipende, infatti, la possibilità di riprendere il cammino dopo una caduta, e di recuperare le forze ‒ e infine ritrovarsi. L’importanza di avere vicini i propri familiari, e di sentirsi accettata e amata nei contesti di vita, rappresenta un elemento centrale della vita di Elena, così come essere accolta dagli operatori dei Servizi di salute mentale, in una Trieste in cui questi ultimi sono sempre aperti.

“Vorrei che tutti sapessero dell’importanza vitale che il sistema pubblico della salute mentale di comunità ha per chi soffre di un grave disturbo mentale. Ascolto attivo, supporto e cure che vanno al di là dell’utilizzo dei farmaci e che assicurano a chi soffre di disturbi mentali una possibilità di mantenere delle relazioni, ma anche di inserimento sociale e lavorativo, e di protagonismo fattivo come soggetti attivi, impegnati a diversi livelli nella realtà e nel contesto sociale e culturale del territorio e della città.” ‒ “Sono schizofrenica e amo la mia follia”, p. 108

Elena torna più volte sull’importanza dell’opera di Franco Basaglia, e del suo gruppo, che proprio in quella sua Trieste ha portato avanti una rivoluzione necessaria. Viene subito da pensare che in ogni luogo del mondo dovrebbe esserci questa possibilità, per ogni persona che non ce la fa da sola. Per chi è in difficoltà dovrebbe sempre esserci un luogo dove poter andare con la certezza che “puoi far sentire il tuo male”, sapendo che qualcuno ti tenderà la mano e ti coinvolgerà in qualcosa di bello.

Elena descrive in maniera puntuale l’atroce esperienza delle crisi, del ritorno dei pensieri invadenti; qualcosa che sembra non lasciare spazio al vivere, e lo scoramento che porta con sé ogni esperienza narrata si ferma su una domanda essenziale: guarire si può?

L’eco di un interrogativo così importante risuona attraverso le parole che segnano il percorso di una vita spesso lacerata dal dolore, ma anche segnata da un desiderio di vita mai placato. La ricerca della risposta riporta alla necessaria apertura verso la contraddizione che è insita nella vita, una contraddizione che è necessario accogliere e di cui bisogna aver cura. Ecco che allora, le esperienze dolorose possono coniugarsi con quel bene che la vita offre e che si può sperimentare anche quando si attraversa l’esperienza del disagio: è possibile avere una buona vita, e rinascere ogni volta se sei insieme a chi ti tende una mano e non ti lascia cadere via.

“Il mio grazie va a Franco Basaglia, per aver istituito i Csm. Grazie, Franco Basaglia, per averci liberato dal manicomio, e grazie per aver sempre creduto in noi “matti”, nelle nostre capacità, nelle nostre attitudini, grazie per averci dato dignità. Grazie a chiunque considera noi “matti” come degni dei diritti che hanno tutti i “normali”.” ‒ “Sono schizofrenica e amo la mia follia”, p. 111

Ed è così che il vuoto può fare da cornice ad un’esistenza piena di cose belle e preziose, un vuoto che a volte è un pieno e che prende tutto lo spazio, ma dove può esserci salvezza.

“C’è stato un periodo in cui le persone, gli uomini e le donne, giovani e meno giovani, hanno cominciato a trovare parole consapevoli e un prepotente bisogno di dirle, queste parole. Di incrociarle con le tante altre emozioni e passioni che affioravano negli incontri che più volte a settimana si convocavano. Persone che avevano avuto l’avventura di attraversare strade impervie per tenere con tanta fatica la rotta.” ‒ dalla postfazione di Peppe Dell’Acqua, p. 125

da Oubliettemagazine