papaveriDi José Leal, psicologo, Barcellona, servizi di salute mentale per adolescenti

Il mondo e, al momento, in particolare l’Europa, si trovano di fronte al tremendo dolore causato dai sentimenti di impotenza per le devastazioni di un virus che ci riporta alla condizione di esseri estremamente vulnerabili, indifesi a causa della crescente caduta di certezze e alla vulnerabilità anche delle nostre istituzioni. Ciò sta provocando reazioni di segno molto diverso, che mettono in evidenza la predisposizione degli umani all’emergere di sentimenti intensi e spesso estremamente contraddittori. La crescita degli esempi di solidarietà e fratellanza coesiste con l’egoismo, di segno opposto. Questi non offuscano l’intensità e la ricchezza delle espressioni di solidarietà e riconoscimento tra individui e gruppi, ma fanno a pezzi l’idea, spesso ingenua, che i mali ci rendono migliori e tirano fuori il meglio di noi.

La ragionevole paura della grande incertezza sulle cause e la fine desiderata di ciò che sta accadendo contiene in sé le molte sfumature di una situazione dolorosa. Forse questa è la risposta alla perdita di una crescente e già preoccupante sensazione di invulnerabilità, che ci lascia spaventati alla scoperta della nostra debolezza. Pochi giorni dopo aver pensato che la barriera dell’età può essere superata e gli anni della vita quasi infiniti, ci svegliamo con la certezza che la vita è effimera e che siamo esposti all’insolenza e al capriccio di un virus che ha una straordinaria capacità di contagio e che, a quanto pare, può spuntare nei luoghi meno sospetti.

Ci sono molti che dicono che dalla situazione che stiamo attraversando emergeremo più forti e più umani. È evidente che più umani lo saremo se comprenderemo che da questo deriva una maggiore consapevolezza di essere soggetti vulnerabili, e che per vivere abbiamo bisogno dell’altro e di tutti. I consigli che ci diamo l’un l’altro in merito a cure, tramite telefonate, whatsapps, e-mail esprimono una maggiore coscienza della cura come qualcosa di essenziale per continuare a vivere; e vivere insieme. Ma ciò che resta da vedere è la persistenza della consapevolezza e gli effetti trasformativi che comporta.

Si dice anche che la crisi stia tirando fuori il meglio da ognuno di noi. Penso che sarebbe più preciso affermare che l’attuale crisi, come altre crisi, non è tanto l’opportunità di tirar fuori il meglio da ognuno, ma che piuttosto, man mano che aumenta la percezione personale del bisogno, rende più evidente il riconoscimento dell’esistenza dell’altro. È vero che ci sono molte persone che ogni giorno tirano fuori il meglio di sé e che continuano a farlo anche in questi momenti di dolore. Mi riferisco a così tanti professionisti nel campo della salute, dei servizi sociali, della cura di coloro che si trovano in una situazione di dipendenza e maggiore fragilità; lavoratori che con il loro impegno fanno funzionare la vita e che, nella vita di tutti i giorni, anche in assenza di tanta sventura, lavorano con cura. Ogni giorno essi costruiscono, insieme costruiamo le condizioni per rendere possibile la vita, sebbene, essendo immersi nel vortice della vita stessa, dimentichiamo che essa è possibile grazie allo sforzo quotidiano di molti. È solo nella vita quotidiana e nella cura di essa che possono essere costruiti il mondo e la vita in comune. Ed è in quella vita quotidiana, così spesso svalutata, che avvengono i numerosi atti di cura che ora, a causa di queste circostanze indesiderate, diventano più visibili, emergono e rendono più facile mostrare un riconoscimento e una gratitudine che dovrebbero far parte di uno spontaneo e quotidiano reciproco trattarsi bene.

Le crisi accadono per indurci al rimpianto, ed è proprio poiché arrivano che qualcosa deve essere fatto per superarle e per imparare a migliorare i nostri sistemi di protezione. La soluzione di una crisi non è garanzia che essa generi un apprendimento collettivo trasformativo. Poco è stato appreso dalla grave crisi economica iniziata nel 2008, che continua più o meno sottoterra, né dal disastro dell’uragano Gloria, né dalla grave crisi migratoria, né dalle migliaia di morti in mare, né dai muri che si erigono numerosi , né dalla implacabile desertificazione. In effetti, in questi giorni, così sopraffatti dal nostro già pesante quotidiano non siamo in grado di vedere le guerre, le migrazioni di massa, le carestie che devastano diversi continenti; la povertà, le morti per fame, le stragi, l’inammissibile mortalità infantile non hanno affatto cessato di esistere.

Ma è necessario desiderare un apprendimento collettivo e confidare che ciò sia possibile. Per questo, ed è quanto mai utile recuperare il valore della vita e delle cure quotidiane come modo per affrontare insieme gli effetti della nostra condizione di esseri vulnerabili e bisognosi. Dobbiamo mettere in campo argini che ci difendano dalla tentazione di costruire un’epopea delle cure e di considerarle come un atto eccezionale. E per il futuro che ci aspetta, bisognerà continuare a contare, giorno dopo giorno, sullo sforzo di ognuno, liberando i nostri professionisti, in particolare gli operatori della salute e del lavoro sociale, dalle tensioni e dai vincoli di questo momento eccezionale.

L’etica della cura è tutt’altro che epica. È costruita più attorno al testo che scrive l’impegno quotidiano e da piccoli atti, quelli così tante volte silenziosi e invisibili, o riconosciuti a stento. Ecco perché questo momento deve anche facilitare una visibilità del lavoro silenzioso e mai sufficientemente remunerato. Il riconoscimento della cura come valore deve essere basato sulla convinzione che questo lodevole sforzo professionale è, oltre alla generosità che portano con sé tutte le pratiche relazionali, un dovere di giustizia verso l’altro che lega ciascuno di noi allo stato e alle istituzioni sociali.

È evidente che nella relazione di cura la qualità del trattamento e i segni della comprensione dell’altro hanno effetti e conseguenze tali che diventa desiderabile che il riconoscimento reciproco avvenga non solo in situazioni eccezionali. E non solo un riconoscimento tra coloro che partecipano direttamente all’atto del prendersi cura, ma anche quanto i leader delle stesse organizzazioni sanitarie, che sono in genere poco capaci di prendersi cura dei loro operatori, devono mettere in atto nel creare le condizioni che producano appartenenza e il minor rischio possibile. L’attuale maggiore sovraccarico di lavoro e l’aumento delle ansie degli operatori sanitari nelle situazioni che stanno affrontando – e la sofferenza che vedono in coloro che assistono e nelle loro famiglie – dovrebbero gradualmente predisporre i manager a modificare le condizioni di lavoro e di supporto a tali compiti. Questi, e non solo nelle circostanze attuali, richiedono uno sforzo emotivo molto intenso.

L’epopea è pure insita nelle metafore che indicano che questa è una guerra, che siamo un esercito di soldati organizzati per sconfiggere un nemico comune. Fortunatamente, questa non è una guerra, come mia madre risponde fermamente, in quanto l’ha vissuta quando aveva solo 9 anni e ne ha ricordi molto intensi. Grande attenzione deve essere prestata alle metafore eroiche che sono spesso espresse nel linguaggio e, quindi, nel pensiero patriarcale/maschilista, e che fanno appello autorevolmente alla prevenzione e al combattimento permanente, perché non si sa mai dove si trova il nemico o più direttamente il nemico è un qualsiasi altro che, per svariati motivi, non rispetta rigorosamente gli ordini di confinamento. Uno dei tanti whatsapp che ho ricevuto mostra un cecchino, tratto da un film, che spara su tutti gli esseri viventi che violano l’ordine di autoconfinarsi a casa loro. Rabbrividisco e temo questo tanto o più del virus.

Questa crisi scopre e riconosce il valore del lavoro quotidiano e silenzioso di molti di coloro che forniscono assistenza. Rivela anche la sofferenza quotidiana, silenziosa e dimenticata di un folto gruppo di popolazione le cui condizioni di vita e di abitabilità, ora che è obbligatorio essere confinati in casa, sono minime. Un gruppo di popolazione elevata che non ha un lavoro o una casa in condizioni adeguate e per la quale gli spazi collettivi, ora vietati, sono più confortanti della casa stessa.

Questa crisi, che si origina come un problema di salute e che presto diventa un problema economico, minaccia la qualità della vita di molti e, sebbene sia difficile da dire, accresce la persistenza della condizione disumana della vita di tanti altri.

Ecco perché è necessario non lasciarsi coinvolgere dalla paura attuale o dall’idea di un futuro che logicamente migliorerà se stesso. Sappiamo che per molti, i più fragili, la vita durante l’attuale crisi è stata più dura di prima. La ricostruzione di ciò che è andato perduto in questo momento deve contare sul recupero e sulla cura dei più fragili, che sono i più dimenticati. E conta su di loro come membri attivi a tutti gli effetti nella ricerca e nella costruzione di soluzioni per tutti. E si fonda principalmente nello sviluppo di servizi di comunità aperti, accessibili, partecipativi e di qualità.

Ci sarà senza dubbio una soluzione al problema di salute che stiamo attraversando. Avremo, come compito importante, oltre alla ricerca e al rafforzamento dei vari sistemi di protezione, quello di trovare un orientamento di valori e incoraggiamento etico per affrontare la nuova realtà. Per questo, è necessario desiderare che quanto accade qui e ora, anche se è doloroso, sia l’inizio di diversi modi di vivere, in cui la soggettività e l’etica della cura come base della cittadinanza inclusiva sono maggiormente prese in considerazione. E dove sia possibile articolare in modo creativo il diritto e l’obbligo di prendersi cura di se stessi, prendersi cura degli altri, e di essere curati.

Al termine di questo isolamento obbligatorio, recupereremo la strada, godremo ancora una volta degli spazi collettivi e continueremo a lavorare per grandi valori e con piccoli gesti.

Affrontare le nuove preoccupazioni di una nuova realtà strettamente legata ai processi di globalizzazione richiede una grande volontà di apprendere un insegnamento dalle stesse cose che accadono, cioè dall’acquisire esperienza.

Tutto ciò richiede che si tenga conto di una dimensione etica legata alle grandi e permanenti preoccupazioni in materia di diritti umani, giustizia, autonomia, reciprocità, riconoscimento, ospitalità – che Derrida afferma non possa essere altro che un atto poetico – e l’accoglienza soprattutto di tutti coloro che sono colpiti dalle crisi con più virulenza.

Solo vivendo, con tutto il rischio e con tutta la speranza, riprendiamo la vita.

Miquel Martí i Pol

Solstizio

Riprendiamola, a poco a poco, la vita

lentamente e con grande sicurezza

non per vecchi dossi o scorciatoie

magniloquenti, ma per il discretissimo

cammino del fare e del disfare di ogni giorno.

Riconsideriamola con dubbi e progetti,

e con depravazioni, brame e fallimenti,

umanamente, tra frastuono e angoscia,

nella pozza degli anni che ci spetta vivere.

In solitudine, ma non solitari,

reindirizziamo la vita con la certezza

che nessuno sforzo cade su terra sterile.

Verrà il giorno in cui qualcuno berrà a mani piene

l’acqua di luce che scorre dalle pietre

di questo nuovo tempo che ora noi scolpiamo.

In memoria di tanti che soffrono, che accompagnano, che lottano, che si prendono cura.

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