La vicenda di Luigi Gallini, nella trappola dell’ergastolo bianco. Una drammatica storia che Gallini racconta nel suo libro.
“Li ricordo anch’io i titoli… e come dimenticare tanto “effetto”…
“Professore di liceo tenta di rapire una bimba di 9 mesi, la polizia lo salva dal linciaggio”. Notizia che rimbalza da un giornale all’altro, da una tv all’altra, che aggiungono dettagli, su quell’uomo in cura per problemi psichiatrici, pregiudicato, per giunta… Se ne parla per alcuni giorni… poi il processo per direttissima che pure viene seguito con la morbosa attenzione di sempre.
In realtà Luigi Gallini, il professore, in un momento in cui si è riacutizzata la sua patologia, aveva sentito l’urgenza di sottrarre la bambina a minacciosi figuri che immaginava le si stessero avventando addosso.
“Giudicato incapace di intendere e di volere al momento dell’atto e socialmente pericoloso: mi sono aperte le porte dell’ergastolo bianco”. A raccontarcelo è proprio lui, Luigi Gallini, che ha voluto consegnarci la sua storia, di persona prigioniera di una pena detentiva di cui, grazie al dispositivo della pericolosità sociale, non si conosce la scadenza… Ed è trappola che in Italia condanna decine e decine di persone, prigioniere di un’incertezza devastante, se si sa quando si entra, non quando si esce.
Gallini ci consegna la sua storia come un urlo, un grido, dal buco nero nel quale è precipitato, nel quale lo “abbiamo” precipitato per poi dimenticarcene. E in fondo, che ci importa. Un matto, pregiudicato per giunta, pericolosissimo… e tutto, per noi, può ben finire lì… perché mai dovrebbe essere rimesso in circolazione, a minare le nostre esistenze…
Ma per lui, inizia quell’incubo buio che è l’ergastolo bianco. E il terrore è di essere dimenticato.
Si fa grande fatica a leggere il libro in cui Gallini racconta la sua vita. Ma va letto: “Socialmente pericoloso, la triste ma vera storia di un ergastolo bianco”, edizione Contrabbadiera, per la collana L’evasione possibile, curata dal Collettivo Informacarcere del Centro sociale evangelico di Firenze, che ha il grande merito di dare ascolto a tante voci che non vorremmo ascoltare, e che invece bisogna ascoltare: “La mia diagnosi attuale è ‘schizofrenia paranoide con delirio di persecuzione, cronici’. Più che una diagnosi è una sepoltura. Una diagnosi che prelude un deserto sociale”.
Dopo l’episodio del presunto rapimento, per un periodo il professore viene rinchiuso nel reparto di osservazione psichiatrica del “Sestante” del “Lo Russo e Cutugno” di Torino, in seguito, sapete, chiuso dopo le denunce delle vergognose condizioni in cui versavano i suoi ospiti.
La bocca dell’inferno, definisce il reparto. La descrizione della cella in cui è rinchiuso fa definitivamente dubitare del nostro essere civili. Risparmio i dettagli del lettino in ferro fissato al pavimento, corroso “dall’acidità dei fluidi organici”, nella cella dove “i secondini per lo più, ma non tutti, mi trattano come una bestia feroce”. Disgusto e smarrimento simili li ho provati per la prima volta leggendo il libro denuncia di Aldo Ricci e Giulio Salierno “Il carcere in Italia”. Un testo degli inizi degli anni Settanta, che fece storia, e faceva fatica credere che gli uomini potessero riservare ad altri uomini trattamenti così penosi, degradanti, violenti. E farebbe piacere pesare che sia tutto relegato a quel tempo, al secolo scorso, ma evidentemente non è così. Certo, di denunce a tratti si sa… eppure sono cose che presto lasciamo scivolar via. Ma è difficile dimenticare le parole di Gallini. Solo un dettaglio: “Sui muri si allargano tante macchie rosse: è il sangue delle zanzare spiaccicate sul muro da generazioni di detenuti. Oltre che di zanzare la cella è piena di ragni e ragnatele. I ragni mangiano le zanzare e le zanzare divorano me: sono il piatto forte dell’ecosistema della cella”.
Bisogna leggere, bisogna lasciarsi ferire dal racconto del professore (ex professore, ha poi subito perso il lavoro, è stato anche ricercatore universitario, astrobiologo che in breve tempo si convince che gli alieni frequentano la Terra da tempi immemori), bisogna lasciarsi scandalizzare. Di quello che è stato il Sestante, di quella che è adesso la sua “vita sedata” nella comunità psichiatrica forense dove ora si trova, dove sicuramente le condizioni non sono fisicamente quelle del carcere, ma dove “dormiamo tutti 14 ore al giorno o più!”. Il “sonno chimico”, forse la soluzione più economica per gestire un folle reo e… “mi sento avvizzire il cuore”.
Stralci di vita non vita, dove si rischia di perdere, fa notare Nicola Valentino nella sua puntuale introduzione (dove ben si chiarisce chi è un “folle reo” e la trappola delle “misure di sicurezza” per chi è giudicato socialmente pericoloso), la relazione con il sé… che Luigi Gallini però non perde e tutto ci restituisce.
A cominciare dal percorso difficile della sua vita. Fra “viaggi metafisici nell’universo dell’allucinazione corporea”, TSO, la breve fuga all’estero, il lavoro di ricerca fra i mondi, la salvezza ritrovata nel sognare.
E non so se più sognanti, allucinanti o poetici sono i disegni che accompagnano la narrazione. Dai colori psichedelici, affogati di occhi, di bolle, di tentacoli e stelle, di buchi come crateri lunari, che ancora sono occhi e trappole dove precipitare…
E poesie.
Ci sono tante lune nelle poesie di Luigi Gallini, a illuminare di pallore il suo dolore rivestito di poesia.
Guardo la Luna:
lontana, remota, gelida,
aliena.
Ci trovo lo smarrimento
di chi non conosce
la fatica e il dolore.
Un ululato leggero
esce dalla mia gola
dolente di vecchio;
oggi
è un cielo di cristallo,
sulla fragilità umana.
E c’è uno sguardo anche su tutti noi, se Gallini vede nella condizione del recluso una metafora della vita dell’uomo libero.
“Non c’è soluzione di continuità- scrive- fra lo stato di autocontrollo e autosorveglianza operato continuamente dal cittadino ‘sano di mente’, con il trattamento del folle, del folle recalcitrante legato al letto di un repartino psichiatrico, o lo stato di reclusione nella Rems del ‘folle reo’ (…) La gradazione delle forme di privazione della libertà si sono fatte così opprimenti articolate e pervasive (…) quello che cambia l’asprezza della pena sofferta quando si infrange la regola”.
Certo che l’asprezza della pena per chi infrange le regole arriva davvero ad annichilire se, nella Comunità forense, sotto l’effetto dagli psicofarmaci, ci si muove “come una dolente mandria di barcollanti e tremebondi ebeti sconfitti”.
Una testimonianza che pone interrogativi, e chiede risposte urgenti, a proposito di quelle norme del codice penale che sono ancora lì, a creare tanta mostruosità, con il combinato disposto di “misure di sicurezza”, “pericolosità sociale”, “non imputabilità”…
Il collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud, che questa storia ha fatto conoscere al Collettivo Informacarcere che l’ha pubblicata, sottolinea il coraggio di Luigi Gallini, perché non poco ce ne è voluto per raccontare e denunciare, praticando di fatto, nonostante tutti i rischi che comporta, la parresia, “il parlar vero”. Il richiamo è a Foucault: “la parresia crea comunità. E’ essenziale per la democrazia. Dire la verità è un atto politico. La democrazia è viva finché si pratica la parresia. La democrazia ha bisogno di quelle persone che osano dire la verità nonostante tutto”..
Osare dire la verità nonostante tutto. Questo è un invito rivolto a tutti. E ben venga l’urlo di Luigi, contro le terribili pratiche escludenti della nostra modernità… “
Scritto per il numero di settembre di Voci di Dentro