Buongiorno mi chiamo Silvia e vi scrivo dalla provincia di Bergamo. Sono malata di psicosi schizofrenica da anni. Ho avuto modo di leggere un estratto sul vostro sito di ricerca e condivisione dello statu Quo dei pazienti psichiatrici che commettono atti violenti nei confronti di altre persone. E condivido che non debba esserci la possibilità e la realtà di essere scusati legalmente per aver commesso degli atti di violenza e troppo spesso di morte nei confronti di familiari di conoscenti o verso persone che non si conoscono o addirittura verso persone che curano le persone. Anch’io ho avuto un passato molto forte e di violenza. 

E imputo e correlo questo passato alle cure inefficaci farmacologiche e di colloquio personale con i medici. 

Fortunatamente ho dei genitori che mi hanno insegnato l’onestà e il rispetto per le autorità. Ciò nonostante ricordo benissimo di un giorno in cui ho aggredito mia madre a parole e alzando le mani. Ero in un orribile stato confusionale e da mesi soffrivo di fortissimo stato di persecuzione. E lei per colpa di un minuto soltanto è entrata nei miei pensieri tra le voci che sentivo dentro e fuori. E così ci è voluto un attimo e l’ho aggredita.

Dopo il fatto sono scappata di casa ma dopo pochi minuti ho realizzato quello che avevo fatto e sono stata io la prima a chiamare i carabinieri per lei e l’ambulanza per lei e per me. Non le ho fatto male tanto da mandarla in pronto soccorso più che altro l’ho molto spaventata. Lei non ha sporto alcuna denuncia. Mio papà me le avrebbe date di santa ragione… Ma ha compreso che per me non esiste mondo senza mia madre e senza mio padre e ha capito che non ci sarebbe stato prosieguo di questo mio comportamento.

Mi vergogno molto di questo episodio e potessi cancellarlo lo farei.

Potessi tornare indietro e trovare la cura giusta lo farei e recupererei vent’anni di sofferenze mie e dei miei familiari.. ma non posso.

Credo che sia facile dare un’assoluzione a un fatto bruttissimo che abbia leso un’altra persona e facile legalmente… Come a sopperire un processo di cura fallito come fosse un risarcimento… 

E forse è un bene questo perché riconosce uno stato di cose che è dentro la realtà dello stigma. Ma obiettare questa facilità diventa imperativo: la persona che commette un atto violento deve vedere quello che ha fatto sentirselo addosso. E deve avere l’esigenza e il bisogno di recuperare… Per quanto possa recuperare.

Credo che questo sia quello che si chiede a qualsiasi persona accusata condannata e imprigionata. Perché non ci può essere un reinserimento in società o una capacità lucida di atteggiamento se non si vede la realtà per prima.

Mi vergogno che ci siano ancora degli infermieri che subiscono violenza anche nei reparti di psichiatria… È la paura quel sentimento che è più forte di tutto che sovrasta e distrugge qualunque sia la patologia è la paura. 

Voi come associazione come voce degli psichiatri e degli operatori dovete insegnare come prima cosa che è la paura che gestisce il comportamento violento.

Se non si tratta di una conseguenza di uso di sostanze.

Se riuscite a spiegare la paura riuscite a spiegare il perché delle aggressioni il perché dell’inefficacia dei farmaci il perché il colloquio con il medico non è andato a buon fine.

E se riuscite a spiegare la paura potrete nello stesso momento assicurare all’aggressore il vedere ciò che ha fatto veramente all’altro.

In verità la paura è quel sentimento mai valutato in proporzione al suo devastante effetto. C’è chi si chiude a riccio per difesa personale o anche per difendere i propri affetti o le persone che hanno una correlazione mentale alla sua vita.. e c’è chi per i medesimi motivi si ribella dentro e fuori se stesso. Esce dall’ovatta del sentimento e del presentimento del pericolo… Ma si ritrova in una realtà di persecuzione o oppressione tale che, al posto di recuperare senso di protezione e capacità di trovare una zona confort dove ragionare e risolvere, vede il nemico ovunque. Soprattutto se si è in fase molto acuta una qualsiasi persona che ci si trovi davanti è vista come il tassello mancante alla propria liberazione: e il malato reagisce o con effusioni o con sentimento di accusa e cancellazione. Cancellazione dell’individuo che è lì davanti e che ci crea una prigione mentale e sofferenza tale da dover essere eliminato. Fermato. 

Il punto di vista mio è che in questo stato di salute il paziente ancora vede una via d’uscita e si può fermare.. mentre nel caso delle effusioni o nel caso in cui la prigionia sia anche a livello sociale (detenzione in carcere o passività e aggressività familiari e a volte taluni casi di prevaricazione in regime di comunità) si innesca un proseguo di stato di persecuzione che arrivato a limiti surreali detta l’omicidio o e il suicidio. O addirittura crea dei mostri. Che nell’ultimo trentennio è quasi classificato come asocialità… Ma non è asocialità non provare rimorso o commettere scempio senza senso di colpa. E mi collego al malato mentale che compie un atto fuori umano così lo voglio chiamare. L’essere catatonico. Il non riuscire a piangere. Il guardare la TV i dossier che passano al setaccio prova dopo prova. Il non pentimento. 

Tutte cose che dichiarano secondo anche i Mass media che l’imputato non era in sé e per questo non responsabile dell’accaduto. Di quella morte. Ma è responsabile dell’ eliminazione di quella persona. È responsabile dell aver colto quella occasione. 

.. poi dicono .. se non avesse reagito non sarebbe andata così. Sarebbe stato persino lui stesso (l’omicida) peggio di come stava. Questo è aberrante. E lo sostengono tutti gli avvocati difensori. 

Perché il limite ci deve essere e deve essere posto molto prima della lesione fisica. ((Non nella lesione verbale per cui si debba rifare il vocabolario che non insegna niente a nessuno se non che siamo tutti diversi e diversamente chiamati. 

Ma nel codice morale. Di educazione. Di aggregazione e attenzione mai passive… Di cura.