La casa rifugio “L’Eccezione” è un’esperienza unica nel suo genere. Non nasce quale emanazione dei dipartimenti di salute mentale, né attraverso la loro mediazione, ma occupa gli spazi lasciati vuoti dalle loro inadempienze per sviluppare un percorso non-terapeutico, non-riabilitativo e non-educativo per gli internati in OPG e/o sottoposte a misure dell’autorità giudiziaria. Un percorso che ha come scopo dichiarato la messa in libertà delle persone, la loro uscita dal circuito giudiziario, utilizzando la normativa esistente e fornendo accoglienza immediata, senza alcuna selezione e a tutti coloro che vogliono/possono accedere a misure alternative.
La casa come semplice “via di uscita” per tentare di recuperare i diritti di cittadinanza , prima fra tutti la libertà di scelta.
Nessuno dei nostri ospiti ha mai pensato di stare in OPG per essere “curato”: tutti sanno di essere lì perché puniti (spesso in modo del tutto spropositato per azioni che, spesso, sanno di non aver commesso). Non hanno mai chiesto di essere trasferiti in comunità per avere cure migliori, ma perché questo, spesso, è l’unico modo che lasciamo loro per uscire da quell’inferno.
La commissione sanità gira gli OPG, raccoglie ore di documentazione filmata in cui i reclusi gridano “libertà” e, invece di passare la palla alla Commissione Giustizia perché elimini questo mostro giuridico incostituzionale che è il proscioglimento per vizio di mente e renda giustizia e libertà (in tempi certi) a queste persone, si fa promotore di iniziative che un’altra volta (e non è la prima) spostano il problema sulle condizioni materiali delle strutture e degli internati e sulla necessità che per superare l’OPG occorra prevedere una rete di servizi territoriali e comunità (più o meno piccole; più o meno terapeutiche; più o meno regionali) dove continuare a “curare” le persone. Per uscire dall’OPG/carcere psichiatrico bisogna che qualcuno si faccia carico di te e garantisca per te casa, lavoro e, soprattutto, il “diritto” alla cura.
E’ come se lasciassimo in carcere le persone, alla fine della loro pena, fino a quando non si creino fuori le condizioni per un loro reinserimento sociale; o come se ritenessimo indispensabile l’individuazione di strutture di recupero prima di consentire la liberazione delle persone rinchiuse in un lager.
Il mondo carcerario psichiatrico è un mondo all’incontrario. Da una parte, ci si batte per condizioni di vita dignitose e per strutture adeguate per gli internati dell’OPG, senza pensare che tali diritti sono comuni a tutti i reclusi; dall’altra non si riconosce loro l’unico e solo elemento di giustizia insito nella pena: e cioè che ha una fine certa.
Quello che chiedono gli internati dell’OPG è la normalità. Si viene imputati di un reato. Ci si da la possibilità di difendersi. Si viene condannati. Si espia la pena, nel modo migliore e dignitoso possibile. Si ritorna liberi.
Come associazione noi dal 2004 pratichiamo l’ospitalità presso la nostra casa rifugio permettendo a chi ce lo chiede di accedere alle misure detentive alternative sia per la fuoriuscita dall’OPG, sia in alternativa all’internamento. Lo facciamo consapevoli che questa non è un’azione “terapeutica” , non è frutto di una “libera scelta” delle persone che ospitiamo e non è un atto di cura: è solo un’occasione per tornare in libertà. Noi amiamo definirlo un atto di “giustizia” che cerchiamo di realizzare garantendo i margini più ampi di libertà di scelta, di essere e di pensiero per ognuno (entro i limiti imposti dalla condizione di “libertà vigilata” a cui i nostri ospiti sono sottoposti): perchè solo agendo la propria libertà si riprende in mano interamente la propria responsabilità.
A differenza di altri non riteniamo che il superamento dell’OPG sia questione prettamente sanitaria o che riguardi in primis i dipartimenti di salute mentale. Crediamo sia una questione di giustizia e che riguardi in primis la società civile e le comunità sociali. Ci siamo auto-organizzati e per anni abbiamo ospitato e rimesso in libertà decine di persone, collaborando con la magistratura di sorveglianza, con le famiglie e le comunità sociali d’origine.
E’ così del resto avviene per tutti i soggetti reclusi che contrattano, attraverso i loro legali, condizioni più favorevoli per loro e percorsi di fuoriuscita dal circuito penale. Tutti “soggetti”, appunto, e non “oggetti” di cura come sono i reclusi psichiatrici, per cui non valgono tanto le norme giuridiche o di garanzia proprie di tutti i cittadini, quanto i “giudizi” psichiatrici.
Un giudizio psichiatrico sta alla base del proscioglimento per vizio di mente, un giudizio psichiatrico ne sancisce la pericolosità sociale e la necessità di proroga della detenzione/misura di sicurezza, un giudizio psichiatrico determina se e dove e quando una persona può uscire, essere liberato o accedere a soluzioni alternative. Ciò con buona pace di tutti coloro che mentre criticano l’OPG, invocano l’intervento e la responsabilità dei dipartimenti di salute mentale, come se la psichiatria non c’entrasse niente con tutto ciò.
Da quando il superamento dell’OPG è passato all’ordine del giorno dei dipartimenti di salute mentale, le cose si sono di gran lunga complicate. Da una parte il giudizio dipartimentale è tornato ad essere centrale (nel bene e nel male) sancendo chi sta fuori e chi dentro sulla base di un giudizio “tecnico” che privilegia situazioni “istituzionali” o sbarra le porte all’accesso alle misure alternative. Ciò che prima avveniva per quanto ci riguarda in tempo quasi reale, oggi nell’obbligatorietà di raccolta dei pareri vincolanti dei servizi psichiatrici e degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna, allunga i tempi in maniera spropositata, quando non annulla ogni possibilità di uscita. Così ad esempio Lillo da più di un anno è stato fermato sulla soglia dell’OPG, perchè un tecnico ha dichiarato che la cosa ottimale per lui sarebbe una struttura “protetta” nella sua città e non la nostra casa rifugio aperta e fuori territorio. Ma siccome l’optimum non c’é, non è stato individuato e nessuno vuol saperne di accoglierlo, niente accade. Quello che è successo con Enrico che dopo mesi di attesa, e solo dopo che il suo dipartimento “coraggiosamente” ha accettato di cambiare in parte il suo “giudizio” iniziale, affermando che si poteva provare ad ospitarlo in una struttura aperta, è stato dimesso dall’OPG ed è ospite della casa rifugio . Quello che non è successo con Fabio che è arrivato da noi dopo solo 4 mesi di OPG, senza il parere del suo dipartimento e che, contro il parere del suo dipartimento e anche del suo comune, oggi è libero a casa sua.
Buon senso e conoscenza del mondo variegato dei dipartimenti di salute mentale, vorrebbe che anche chi è arso dal sacro fuoco basagliano, si ponesse la questione che vanno create norme certe che garantiscano diritti aldilà e al di fuori di qualsiasi giudizio psichiatrico. Diritti e opportunità che valgano anche per quegli internati a cui i propri dipartimenti di salute mentale non sanno, non vogliono, non credono si possano trovare soluzione alternative.
Quando la casa si è trasferita 3 anni fa a Francavilla di Sicilia, ridente località della Valle dell’Alcantara in provincia di Messina, abbiamo vissuto una entusiasmante stagione di rifiuto, pregiudizio e rivolta popolare con tanto di raccolta di firme inviate a tutte le autorità competenti. Entusiasmante perché ci ha dato modo di confrontarci da subito con la comunità sociale e di chiarire il nostro progetto di accoglienza. In quell’occasione fra assemblee pubbliche e azioni dimostrative abbiamo utilizzato lo slogan “Siamo tutti pericolosi”, invitando i cittadini, gli amministratori, i volontari ad indossarlo. Slogan, che a 3 anni da quei giorni, ritorna quale titolo della giornata di confronto che stiamo organizzando il 29 giugno 2012 a Francavilla di Sicilia.
Alla tavola rotonda abbiamo invitato a confrontarsi tutte le autorità (Tribunale di Sorveglianza, Uepe, Dipartimento salute mentale, Direzione dell’OPG) da cui oggi dipende (nel bene e nel male) il destino dei nostri ospiti, al fine di aprire un dibattito serrato a partire da un’esperienza pratica, concreta e inaggirabile, che dice che sono possibili (ed esistono) altre strade aldifuori (e nonostante) i “progetti individualizzati” e i “budget di salute” dei dipartimenti di salute mentale, per uscire dall’OPG.
Giuseppe Bucalo
associazione Penelope