di Vito D’Anza, portavoce nazionale del Forum Salute Mentale
Il convegno annuale del Club dei SPDC No Restraint segna un momento importante di confronto e di stimolo per il superamento delle violente restrizioni che imperano nella gran parte dei SPDC. Anche a Terni, grazie all’impegno degli operatori e del responsabile del SPDC locale, Angelo Trequattrini, l’incontro è risultato particolarmente vivace ed interessante. C’è stato, tra l’altro, un interessante confronto con psichiatri svizzeri e tedeschi di Brema (M. Buhrig), svizzeri del Canton Ticino (T. Hemmenegger) che in realtà pur diverse dall’Italia (paesi che contemplano ancora manicomi) hanno realizzato pratiche No Restraint
E’ il 9° anno che si svolge l’importante confronto sui SPDC che inesorabilmente rappresentano uno snodo critico della riforma del 1978, la riforma basagliana e per alcuni aspetti lo snodo di ogni psichiatria: la qualità delle risposte di cura per le persone in crisi. Ormai è condivisa l’idea che il SPDC è un termometro, è un indicatore , è una cartina di tornasole sulla qualità delle risposte che le persone ricevono in un determinato territorio, indicatore della qualità complessiva del DSM a cui appartiene. Purtroppo persistono cattive pratiche che caratterizzano tanti SPDC e tanti DSM in Italia a partire dalla contenzione meccanica e dalle porte chiuse, a partire dall’annientamento delle persone durante i ricoveri (perquisizioni, sottrazione di stringhe delle scarpe , di cintura, obbligo d’indossare il pigiama) e dalla somministrazione eccessiva di psicofarmaci, al poco tempo che viene dedicato alla “negoziazione” sul percorso di cura, ……e così via). Ma il peggio è racchiuso nella logica tutta manicomiale e in un paradigma ostinatamente e riduttivamente medico-biologistico: il ricovero esclusivamente per abbattere ” i sintomi” in assenza totale di qualsiasi programma di cura, che sappiamo che spesso può essere di lunga o lunghissima durata, in cui anche la permanenza nel SPDC assume senso se – e solo se – inserito in un percorso negoziato, rassicurante, che riconosca la dignità e la soggettività dell’altro, la sua storia, le sue possibilità, le sue speranze. Ma come si fa a non interrogarsi su pratiche violente che calpestano la dignità delle persone con una grave sofferenza mentale. Una modalità tra le più violenti è, ad esempio, la deportazione di persone in crisi, volontariamente o in TSO, trasportate in autoambulanza a distanza di centinaia di chilometri, a volte addirittura fuori dalla propria regione, alla ricerca di un “posto letto”? In particolare le persone sottoposte a TSO, trasportate in SPDC lontani dal proprio luogo di residenza, lontane dalle proprie famiglie, lontane dai propri amici e dai propri affetti e “sbarcati” in luoghi sconosciuti tra operatori sconosciuti. E nella stragrande maggioranza dei casi, deportati in luoghi lontani e sconosciuti, tra operatori sconosciuti, senza uno spazzolino da denti, senza sigarette per chi fuma, senza un euro per un caffè o per un giornale, e così via. Questa giostra è indegna per un paese che chiudendo prima i manicomi, e poi gli OPG, pretende un’assistenza dignitosa e rispettosa dei diritti e della soggettività delle persone che attraversano la sofferenza mentale. E certamente questa pessima pratica non si può imputare a un numero basso di posti letto. Forse in qualche parte d’Italia potrebbe anche esserci questo elemento ma questa pratica è molto diffusa, certo dove meno e dove più, su quasi tutto il territorio nazionale. Il numero die posti letto è solo un alibi che dipende da quanto un DSM ricorre al ricovero ospedaliero, dalla durata di questi ricoveri e soprattutto di programmi individuali di cura così come dalle politiche di rete e di comunità di un determinato territorio.
Ma in fondo lo sapeva bene Basaglia che su questo terreno non si vince per sempre perché basta non interrogarsi più su quello che facciamo che inesorabilmente si viene trascinati all’indietro.
Questa continuità culturale con i fondamenti della psichiatria di inizio ‘900 sta dilagando . Ma veramente si pensa che la psichiatria abbia fatto “enormi progressi” se i pilastri più macroscopicamente evidenti dei manicomi ovvero la reclusione (la porta chiusa)e l’umiliazione della contenzione meccanica resistono inalterate nei moderni SPDC? Veramente possiamo pensarci che siamo “moderni ed avanzati” se da decenni ci trastulliamo prevalentemente sulla disponibilità di nuove molecole di farmaci, che pur aiutando, se usate con rigore e coerenza, non cambiano il destino di milioni di persone? La chiusura dei manicomi, e degli OPG, ha cambiato e cambia il destino delle persone ma, come è ovvio, da solo non basta, è una condizione da cui partire.
Non possiamo non interrogarci sul fatto che la pratica, più che la teoria, che regolava la vita dei manicomi è, per molti importanti aspetti, la stessa che regola la gran parte dei SPDC oggi, pratica e teoria che hanno attraversato tutta la psichiatria dagli inizi del ‘900.
Difatti l’art. 60 del regio decreto del 1909 (16 AGOSTO 1909, n. 615) così recitava: “nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura e la durata del mezzo di coercizione.”
La cultura che aleggia oggi nella maggior parte dei SPDC e anche ciò che cosa è scritto nei documenti d’accreditamento o nei regolamenti di troppi SPDC italiani oggi è pari pari quello che era scritto nel regolamento dei manicomi del 1909, in una sorte di inquietante continuità: siamo contro la contenzione, vorremmo non legare ma quando è necessario, “eccezionalmente” (sic!), leghiamo le persone e l’importante sembra essere avere un registro dove vengono registrati tali “eccezionali” eventi. E così ci troviamo varie decine di SPDC con molte decine di contenzioni all’anno a fronte di SPDC (pochi) che praticano zero contenzioni.
Qualcosa non torna. Se è possibile non legare, e i SPDC di Pescia, di Mantova, di Livorno, di Trieste, di Grosseto e di altri 30 SPDC italiani su 320, lo testimoniano perché questa pratica paleomanicomiale si perpetua? Si può accettare che la contenzione meccanica, e la porta chiusa, possa essere un optional, a discrezione del singolo SPDC o del singolo psichiatra? Una persona con disturbo mentale può essere in balia dello psichiatra o del SPDC che impatta?
Durante questi mesi di campagna nazionale contro le contenzioni, promossa dal Forum Salute Mentale e sostenuta da tanti associazioni nazionali, da tante persone, in particolare da giuristi, magistrati, persone della cultura, operatori (in minoranza numerica), familiari (UNASAM), ma anche da politici e parlamentari, si è detto in più lingue che la contenzione è una pratica illegittima e illegale, non c’è alcun articolo di legge che la consente ma ci sono articoli della Costituzione che la ostacolano in maniera chiara, perché allora si fa finta di niente?
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