Devo confessare tutta la mia incompetenza. Quando parlo di elettroshock (ECT) non so bene di cosa parlo: non l’ho mai visto fare, non l’ho mai praticato, non l’ho mai subito (!). Basaglia che spesso “gli scienziati” citano, l’ha praticato nella Clinica delle Malattie Nervose e Mentali a Padova negli anni ’50, lo ha trovato al suo arrivo a Gorizia nei primi ’60. Da allora questo trattamento non ha più trovato asilo nelle sue pratiche e nelle nostre future.

Di Ect, tuttavia, ho dovuto occuparmi. Mi hanno interrogato le bocche sdentate, il decadimento fisico e intellettivo, lo sguardo vuoto degli internati che lo avevano subito. Il terrore, la sconfitta, la mestizia che ancora dovevo ritrovare nelle loro stentate parole. Sento già i colleghi rche vanno riproponendo questa pratica che stanno per riprendermi, un po’ seccati, e quasi divertiti: “ma queste sono storie d’altri tempi, del manicomio che non c’è più. Quando gli strumenti erano rudimentali, le conoscenze approssimative! E poi, pensate, lo usavano perfino per punire. Oggi noi pratichiamo la Tec” Che vuol dire trattamento elettroconvulsivante (!) che è solo un altro modo per dire elettroschock”.

Venivano obbligati e puniti gli internati indisciplinati, riottosi, irrispettosi, recalcitranti, clamorosi. Forse tutti ricordano “La meglio gioventù”, il processo e la condanna del dr. Coda, direttore del manicomio di Torino, che viene denunciato proprio dagli internati per le sue pratiche coercitive e punitive. Il tribunale ammette come testimoni dell’accusa gli stessi “malati di mente”. E’ la prima volta. Ed è la prima volta, siamo nel ’75, che l’Ect/Tec è costretto a sedere sul banco degli imputati!

Di questo trattamento so poco, comunque, e per questo cerco di leggere, di tenermi informato, di capire, di trovare un’evidenza che sostenga a ragione il mio scarso interesse. La letteratura scientifica non mi aiuta molto, anzi. Non esiste uno studio, uno solo, a fronte di un numero esorbitante di lavori e di una pratica diffusissima in tutto il mondo, che dica dell’efficacia. Di risultati certi, evidenti, duraturi. Più mi interrogo e più mi rendo conto che è una pratica priva di senso. Nel nostro paese il ricorso all’Ect è minimo tanto da renderlo inconfrontabile con le pratiche di altri paesi siano essi ricchissimi o poverissimi.

Bene o male da noi, la persona riesce a stare al centro degli interventi (non il cervello!).

Più leggo e più mi convinco che la pratica dell’Ect non può che essere una scelta ideologica, una scelta di campo che accetta di ridurre la persona a corpo, che dilata le distanze, già siderali, tra chi soffre di un disturbo mentale, i curanti e il mondo che lo circonda. Contribuisce a cancellare l’umano che è l’unico valore necessario per avvicinare le persone e le loro “incomprensibili” sofferenze. La convulsione provocata dalla scarica elettrica, sotto anestesia e in maniera indolore come se si fosse in un moderno ambulatorio dentistico, interrompe il dialogo fra i neuroni e lo modifica. E drammaticamente cancella qualsiasi possibilità di dialogo tra chi cura e chi dovrebbe essere curato. La pratica dell’Ect (ancor più che i farmaci) resta la dimostrazione di una psichiatria che si interroga poco sui suoi fondamenti. Così la malattia resta al centro di ogni interesse (e non la persona), il cervello (e non i sentimenti, le storie, le culture), i neurotrasmettitori (e non le emozioni, le passioni, le ferite quotidiane, le gioie, le sorprese, le solitudini, il gelo delle relazioni, le mortificazioni, i fallimenti, le miserie…).

Non esiste un solo lavoro che dimostri l’efficacia di questa pratica nel trattamento di persone con disturbi mentali severi e complessi nell’immediato come nel lungo periodo. Benché si continui ad affermare e a dimostrare che gli interventi psicosociali producono i migliori risultati di rimonta, di integrazione, e di guarigione per le persone che soffrono di disturbi mentali severi (quelli che massimamente devono interessare un dipartimento di salute mentale) si continua a investire la maggior parte della risorse pubbliche in ospedali, letti, farmaci. Interventi che anche nel nostro paese vanno sempre più sbilanciandosi verso modelli medico/farmacologici.

Ecco credo che sia tutto qui il mio bisogno di cercare di andare oltre l’entusiastico stupore del prof. Cerletti quando per la prima volta applicò la scarica elettrica a un inconsapevole giovane che vagava perduto nella stazione di Roma. Il giovane resistette alla scarica e urlò con tutto il fiato che gli restava: noo! Vi supplico. Non un’altra volta.” Per il prof. Cerletti fu la prova che la scarica aveva funzionato.

Era il 1939, ricevette le congratulazioni del Duce. E l’elettrourto, come in italiano doveva chiamarsi, divenne una “gloria italica”, di cui dovremmo essere fieri.  Il prof. Cerletti, cattedratico di tutto rispetto, aveva visitato il Testaccio, il mattatoio di Roma, dove i macellai, prima di lui, avevano scoperto che una scarica elettrica avviava il maiale docile e remissivo al suo ineluttabile destino.

Col processo di Torino le porte dei manicomi cominciarono ad aprirsi e mostrare “gli scheletri” gelosamente e “scientificamente” chiusi negli armadi. Sembrava chiudersi un secolo di vergogna. Molte psichiatrie insensibili non fanno caso, dimenticano, occultano, tacciono.