[articolo uscito su redattoresociale.it]
La denuncia di Legacoopsociali in occasione della Giornata mondiale della Salute mentale. «Aumentano i casi seguiti, diminuiscono gli operatori, secondo una logica miope di riduzione della spesa pubblica». E preoccupa che ci sia «chi continua a proporre nuovi muri, nuove istituzioni totali…»
Sono passati quarant’anni dalla morte di Franco Basaglia, ritenuto universalmente il riformatore della psichiatria. Tanto che i referenti di settore dell’Oms provengono ormai da quell’esperienza, e l’ultima – l’argentina Devora Kestel – è stata pure cooperatrice sociale, impegnata nello smantellamento del manicomio di Udine (l’ultimo grande “residuo” chiuso grazie al Progetto obiettivo della ministra Bindi). A ricordarlo, nella Giornata mondiale della Salute mentale, è Legacoopsociali per la salute mentale, che tuttavia denuncia: «Eppure, a 42 anni dalla sua approvazione, la legge 180 non è ancora stata applicata in ogni regione italiana. Anzi: c’è chi (la Lombardia, la più grande) concentra ancora la psichiatria in ospedale mentre il Veneto sta al di fuori dell’ordinamento, prevedendo sia la contenzione fisica che l’internamento a vita in comunità. Altrove, si sono trasferiti semplicemente gli utenti in tanti piccoli “minicomi”, con un tasso esemplificato dal confronto tra gli 8 posti letto per 10.000 abitanti ricoverati in comunità in Sicilia, ed i meno di 2 per 10.000 del Friuli Venezia Giulia, la regione più virtuosa nel percorso di de-istituzionalizzazione».
Gian Luigi Bettoli, portavoce di Legacoopsociali per la Salute Mentale, afferma: «In generale, mentre aumentano i casi seguiti, diminuiscono gli operatori, secondo una logica miope di riduzione della spesa pubblica che rende sempre più deboli i Centri di salute mentale. La spesa per la salute mentale assomma – con gravi squilibri territoriali – il 3,5% di quella sanitaria, ben lontano dal 5% fissato come obiettivo ottimale. Ma quel che appare stridente, prima ancora della spesa (l’esempio friulano dimostra che si può fare bene senza spendere grandi cifre), sono le pratiche. Va fatta una considerazione sulla disattenzione dell’opinione pubblica per i problemi della salute mentale, vissuti con l’occhio distratto da forme di stigmatizzazione verso i fenomeni di marginalità. Atteggiamento distratto che diventa panico di fronte a fenomeni di violenza, strumentalizzati da un mondo dei media inquinato dalla comunicazione e/o, tradizionalmente, dalla propaganda politica di destra. Questa lettura è decontestualizzata rispetto ai dati di realtà: la criminalità nel nostro paese è in regresso da anni; la violenza trova più spesso luogo in famiglia che nella marginalità; la morbilità tra gli stranieri, anche psichiatrica, è legata alla gestione de-strutturata dell’accoglienza, più che all’immigrazione; i suicidi sono in calo, in un paese che ne ha un basso tasso rispetto all’Europa».
Per Bettoli, «questa discrasia tra realtà e percepito è alla radice delle continue richieste di nuovi posti-letto ospedalieri, della resistenze all’attuazione di una riforma invidiata e copiata nel mondo, e di continue richieste di sua modifica, che per altro decadono sistematicamente. Anche perché, va ricordato, il sistema manicomiale italiano ha sempre fatto spendere cifre spaventose: l’80% dei bilanci delle province, un tempo, finiva lì. Meglio vivacchiare, è quella la vera risposta “controriformistica”».
«In ogni caso, rimane il fatto che ci sia chi continua a proporre nuovi muri, nuove istituzioni totali, partendo dal presupposto che la persona con problemi psichiatrici sia l'”altro”, il “mostro”, l'”incurabile”, con ciò ignorando i risultati della moderna scienza della salute mentale. La cura non solo è possibile, ma la marginalità è prevenibile attraverso la lotta all’emarginazione sociale ed alla stigmatizzazione culturale del “diverso”. E le nuove pratiche cliniche, basate sulla implementazione della dignità del soggetto umano, si articolano attraverso strumenti come il budget di salute, dove l’obiettivo da perseguire non è l’efficienza economica della prestazione sanitaria e farmaceutica, ma il rafforzamento della soggettività della persona-utente, attraverso un mix di psicoterapia e lavoro sociale, basato sui pilastri del lavoro e della casa».
Continua il portavoce di Legacoopsociali per la salute mentale: «Noi, dall’osservatorio delle cooperative sociali più “basagliane”, ci poniamo da tempo il problema della qualità clinica e della rendicontazione sociale del prodotto del nostro lavoro, che poi è il benessere delle persone, donne e uomini, che periodicamente si trovano in difficoltà nel gestire la loro sofferenza. Non a caso, siamo nati innanzitutto come cooperative di utenti dei servizi pubblici, per poi diventare anche cooperative di lavoratori sociali. La nostra sperimentazione, grazie ai modelli scientifici di rendicontazione sociale elaborati da Euricse, ha dimostrato la vantaggiosità, economica oltre che sociale, dell’inserimento lavorativo come strumento di cura».
«Da quattro anni – conclude Bettoli -, con il progetto Visiting DTC (Comunità Terapeutiche Democratiche), mutuato dall’esperienza britannica, stiamo lavorando sulla rilevazione della correttezza del lavoro nelle strutture cooperative, intese sia come residenze che come reti di relazioni con il territorio in cui si abita. Un sistema di certificazione di qualità basato sul confronto di esperienze, con una rete di valutatori che mette sullo stesso piano utenti, familiari ed operatori. Quest’anno, il quarto Forum nazionale (che si è concluso ieri, ndr) l’abbiamo dedicato alla lotta alla contenzione. Non più solo quella fisica: poniamo ormai il problema anche dell’abuso di quella che passa attraverso l’uso, securitario e smodato, dei farmaci».
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