Agostino Pirella
Ho iniziato a lavorare in psichiatria quando i primi psicofarmaci entravano in scena. Erano gli anni Cinquanta e stava iniziando la crisi della soluzione manicomiale, durata un secolo e mezzo. Appariva evidente la nocività del lungo internamento e i giovani psichiatri erano affascinati dalle prospettive che aprivano sia la psichiatria sociale che le psicoterapie delle psicosi. Sullo sfondo restava l’impostazione fenomenologicoesistenziale che derivava da un eccesso di riflessione filosofica e da una reale impotenza di fronte alla disumanità degli asili.
La clorpromazina, sintetizzata in Francia per fini anestetici, veniva testata su pazienti psichiatrici sfruttandone i poteri sedativi. Il farmaco infatti provocava una sonnolenza molto diversa da quella dei barbiturici e molto meno pericolosa. Anche alcuni sintomi psichiatrici sembravano essere interessati. I deliri si attenuavano, il comportamento si riordinava, divenendo però come “ingessato”. Si scoprì poi che alcune reazioni erano dovute all’interessamento delle aree extrapiramidali, e cominciammo a preoccuparci per reazioni avverse come la caduta della pressione arteriosa, l’azione tossica sulla funzionalità epatica e sul metabolismo dei glucidi. Ma l’effetto collaterale a distanza più invalidante si ebbe con le manifestazioni che furono chiamate “discinesia tardiva”, e cioè movimenti involontari degli occhi, del capo e della lingua che provocavano ovviamente una grave disabilità sociale.
Inizia l’era farmacologica in psichiatria
L’era farmacologica era così cominciata e vi furono sempre nuovi farmaci da “provare”, senza particolari precauzioni metodologiche (caso-controllo, doppio cieco) che sarebbero state predisposte successivamente. Nel corso delle esperienze di deistituzionalizzazione si poté sperimentare che, con bassi e decrescenti dosaggi di psicofarmaci e partecipazione collettiva dei pazienti alle iniziative sociali, si ottenevano esiti molto positivi. I pazienti riprendevano la parola ed esprimevano capacità di leadership e di autocontrollo nel corso delle assemblee e nelle iniziative di lavoro e di svago. Man mano che proseguivano le esperienze di riabilitazione che si arricchivano di strumenti operativi, permettendo ai pazienti di divenire protagonisti nella difesa della propria salute, il dosaggio degli psicofarmaci diminuiva correlativamente fino ad estinguersi.
Si moltiplicavano tuttavia le offerte di sempre nuovi psicofarmaci, con pretese di specificità (farmaci “deliriolitici”, “disinibitori”, ecc.). Le pressioni delle Case farmaceutiche, in confronto ai metodi attuali, apparivano moderate e singolarmente rispettose dei limiti in cui tali pressioni possono essere esercitate. In particolare, per quanto riguarda la pubblicità, essa era limitata, almeno in Europa, alle riviste specialistiche ed alla preparazione di piccoli testi elogiativi.
Con la crisi del paradigma psichiatrico istituzionale, che apriva la strada ad una psichiatria riabilitativa territoriale, intervenne, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, se non una vera e propria crisi, un ridimensionamento del ruolo dello psicofarmaco in favore di altre “tecniche” di cura e di riabilitazione, tra cui la stessa psicoterapia, individuale e di gruppo.
Il ruolo della partecipazione ai programmi riabilitativi, il diritto dei pazienti all’informazione e all’accesso alle risorse disponibili, quali la casa, il lavoro e la socialità, in un processo di liberazione, hanno rappresentato una vera e propria alternativa al trattamento inquadrato nel modello medico, relegandolo, in molti casi, a funzione accessoria e residuale.
Legami delle Case farmaceutiche con ambienti accademici e la ricerca
A distanza di alcuni anni, pur dopo esperienze molto dimostrative in diversi contesti, tra cui il nostro Paese, l’adesione acritica e strumentale della psichiatria ai metodi delle neuroscienze (rigorosi, ma necessariamente limitati ad aree non contigue alla pratica psichiatrica) ha proposto con forza sia il rilancio delle teorie biologiche della malattia mentale che del modello terapeutico farmacologico. Così i “nuovi” antidepressivi, i “nuovi” antipsicotici furono lanciati non solo come efficaci (o più efficaci dei precedenti) ma come risolutori esclusivi ed assoluti. Ciò attraverso un progetto totale di tipo pubblicitario, secondo le regole del mercato, che ha comportato la revisione sostanziale degli strumenti di lancio e di diffusione del farmaco assieme a costi elevati e ad altrettanto elevati profitti. E’ stato calcolato che le spese per questo settore di informazione e di diffusione arrivano al 30% del fatturato (Garattini).
Vorrei ricordare la copertina di un numero di Newsweek dei primi anni Novanta. Veniva richiamata la “guarigione” miracolosa di quattro – diconsi quattro – casi di psicosi dopo la prescrizione di un nuovo neurolettico. Che cosa avrebbe dovuto scrivere allora questo settimanale delle esperienze italiane di riabilitazione o di quelle di Loren Mosher in USA? Appariva evidente un legame di qualche tipo con le Case farmaceutiche, così come le strategie di sviluppo del mercato comportavano il finanziamento dei ricercatori esterni ad esse fino ai legami con le Università e gli ambienti accademici, di recente richiamati criticamente dall’autorevole New England Journal of Medicine.
In esso leggiamo:
“C’è ora una considerevole evidenza che i ricercatori con legami con le Case farmaceutiche sono in realtà più adatti a riferire risultati favorevoli ai prodotti di quelle aziende rispetto a ricercatori senza quei legami. Ciò non prova conclusivamente che i ricercatori sono influenzati dai loro legami finanziari con l’industria. Comprensibilmente le Case farmaceutiche scovano (seek out) ricercatori che capita ottengano risultati positivi. Ma io ritengo che la distorsione (bias) sia la spiegazione più adatta, e in entrambi i casi è chiaro che più sono entusiasti i ricercatori e più è sicuro che essi siano finanziati dall’industria. Molti ricercatori pretendono di essere oltraggiati dalla sola idea che i loro legami finanziari con l’industria potrebbero influenzare il loro lavoro. Essi insistono che, come scienziati, possono rimanere obiettivi, non importa quanto siano blanditi. In breve, essi non possono essere comprati. La questione non è – insiste l’autrice della denuncia – se i ricercatori possono essere “comprati” nel senso di un “quid pro quo”. E’ che questa stretta e remunerativa collaborazione con una azienda industriale naturalmente crea benevolenza da parte dei ricercatori e la speranza che l’elargizione continui. Questo atteggiamento può sottilmente influenzare il giudizio scientifico in modi che possono essere difficili da identificare”. E qui l’autrice si pone una domanda cruciale. “Possiamo noi realmente ritenere che i ricercatori clinici siano più immuni verso i propri interessi delle altre persone?” (1)
L’articolo prosegue con l’analisi di ciò che può accadere all’interno delle istituzioni in cui divengono confusi e indistinti (“blurred”) gli scopi commerciali dell’industria e la mission delle scuole mediche. E’ evidente come gli studenti in medicina vengano addestrati a ritenere la soluzione farmacologica come la principale rispetto alle altre forme di risposta, più complesse e difficili da realizzare all’interno della relazione rigida di tipo medico, ereditata dal paradigma storico della psichiatria asilare.
Che questo stia avvenendo in modo massiccio, è dimostrato dall’assoluta prevalenza di indicazioni farmacologiche per tutta una serie di disturbi psichiatrici in cui l’esperienza dimostra l’utilità e l’efficacia di metodiche diverse. Prendiamo ad esempio la depressione come disturbo. Intanto non è così semplice distinguerla da una demoralizzazione, come da un semplice sintomo di altra condizione, anche organica. Ma in tutti i casi, una forma di psicoterapia o di supporto è assolutamente indispensabile. La cosa è trascurata dall’enfasi sul trattamento farmacologico e sulla discussione su quale tipo di farmaco antidepressivo sia più efficace. Quando si interpella un ricercatore sciolto da legami con le Case farmaceutiche invariabilmente viene evidenziato questo aspetto. E’ il caso, tra gli altri di Jan Scott, che fin dal 1995 sul British Journal of Psychiatry rilevava l’efficacia dei diversi trattamenti psicoterapeutici. (2)
Anche per quanto riguarda gli antipsicotici, l’enfasi sui “nuovi” farmaci è molto forte. Ciò accade ovviamente da parte delle Case farmaceutiche interessate e dagli psichiatri in qualche modo da esse condizionati, ma – un po’ a sorpresa – anche da parte delle associazioni delle famiglie che desiderano che il Servizio sanitario nazionale rimborsi gli alti costi del trattamento.
Eppure abbiamo assistito – scrive autorevolmente Silvio Garattini – ad una “campagna trionfalistica per i nuovi antipsicotici, seminando l’idea che i vecchi non avevano più significato e che i nuovi dovevano essere utilizzati come prima linea”. “Troppe volte i farmaci – continua Garattini – in omaggio ad una legge europea che non è stata modificata dalla recente revisione da parte del Parlamento europeo, sono approvati senza avere un adeguato numero di studi. La loro approvazione non tiene conto di quanto già esiste nell’armamentario terapeutico corrente; raramente si fanno confronti adeguati e mai si richiede che i nuovi farmaci siano migliori di quelli già esistenti”. A questo proposito Garattini rileva – cosa ampiamente nota ma mai abbastanza ricordata – i gravi effetti collaterali attribuiti ai nuovi antipsicotici: aumento ponderale fino a 10 Kg., rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare, tendenza a sviluppare diabete. Per uno di essi (clozapina) c’è anche un rischio significativo di agranulocitosi che può portare a decesso. Secondo Garattini ci deve essere più attenzione per il rapporto benefici-rischi. Infine c’è da osservare l’enorme spesa per questi nuovi farmaci: 168 milioni di euro nel 2003 contro 12 milioni per i vecchi: In sostanza il 46% delle prescrizioni determina il 92% della spesa (Fonte: OsMed: Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali, Ministero della Salute)(3)
La valutazione dell’efficacia e gli intrecci degli interessi
C’è una singolare contraddizione tra lo stato di realtà delle ricerche sulla correlazione tra disturbi mentali (o più largamente studi sul funzionamento cerebrale con nuove tecniche di indagine) e presunta base biologica di essi e l’enfasi con cui i mass media danno per accertata una genesi organica dei disturbi stessi, e dunque la necessità di trattamenti farmacologici. La traduzione di questo messaggio fallace, in termini di diffusione culturale nella popolazione da una parte e della pratica inerte e ripetitiva sul versante delle relazioni terapeutiche degli specialisti, rappresenta il tentativo di un completo dominio della “non santa alleanza” (“unholy alliance” di Loren Mosher) tra le associazioni psichiatriche e l’industria farmaceutica. Vediamo quindi che la psichiatria ha medicato la sua crisi aggrappandosi alle neuroscienze, con un’evidente forzatura dei limiti entro cui poteva muoversi dopo il fallimento storico della proposta istituzionale rappresentata dall’esclusione dei malati mentali negli asili manicomiali.
Mentre il DSM ha venduto 2,5 milioni di copie ed è stato tradotto in ben 21 lingue, dettando norme di inquadramento diagnostico coerenti con le prescrizioni farmacologiche, in un ambiguo confronto impari con il sistema nosografico dell’OMS/WHO (ICD), l’uso propagandistico dei progressi delle ricerche sul funzionamento cerebrale tenta di travolgere ogni pratica che si fondi sulla relazione del servizio con il paziente ed il suo contesto. Perfino la dimostrazione che un trattamento psicoterapeutico sia efficace quanto e anche più di un trattamento farmacologico nella depressione (Scott, 1995) si blocca di fronte alla misurazione del tempo da dedicare al paziente e dei costi complessivi della cura.
Non c’è dubbio che considerazioni sui livelli dei costi possano (e forse debbano) essere attentamente valutate dai programmatori dei servizi e dagli stessi tecnici. E tuttavia si dovrebbe poter spostare la questione al di fuori del modello esclusivamente medico che contrappone la prestazione di un singolo specialista a quella di un altro. Le esperienze degli ultimi decenni e la nuova attenzione per le ricerche di psichiatria culturale ci portano a considerare i fattori che ostacolano o favoriscono la diffusione di trattamenti di gruppo, le iniziative di supporto, le attività collettive di socializzazione delle conoscenze. Il trattamento considerato efficace è quello esclusivamente erogato dal curante/esperto mediante prescrizione di psicofarmaci e/o di psicoterapia “manualizzata” (così si definisce una psicoterapia autorizzata e tecnicizzata). Eppure le esperienze di deistituzionalizzazione e quelle più esplicitamente riabilitative hanno dimostrato la loro efficacia anche fuori da questo paradigma valutativo duale. Tutte le ricerche sull’”efficacia simbolica” (espressione coniata da Lévi-Strauss a proposito di una complessa cerimonia del popolo Cuna per la risoluzione di parti difficili) come pure la descrizione di cerimonie risolutive di conflitti, stanno a dimostrare l’utilità per la salute mentale di ciò che si muove nel campo socio-culturale sottratto al dominio del mercato mondiale degli psicofarmaci.
Così è, per esempio, anche nel mondo occidentale, per il Posttraumatic Stress Disorder, che viene trattato nel National Centre for PTSD di Washington (per reduci di guerra) con diverse cerimonie, che rievocano fasi diverse di una storia comune a tutti i partecipanti. “Se può essere ammessa in via di principio – scrive Roberto Beneduce – l’efficacia terapeutica di simili cerimonie, che sostengono l’individuo nello sforzo di dominare e “accreditare” una definizione comune di quanto gli è accaduto, bisogna riconoscere al tempo stesso che quelle cerimonie lo coinvolgono profondamente anche nella ideologia della retorica che fondano l’uso di una categoria e la sua riproduzione” (4). Non sfugge in questa particolare esperienza, infatti, la relativa riconduzione della cerimonia dentro le logiche della continuità dell’esperienza di guerra e dunque all’interno di un universo “militare” con le sue peculiari caratteristiche. Resta da verificare per quali motivi si sono potute affermare come “scientifiche” e “golden standard” metodiche ampiamente deficitarie, come per fortuna si stanno evidenziando. Mosher afferma in modo più reciso di quanto non abbia fatto il NEJM: “I protocolli di ricerca usati negli studi su psicofarmaci richiesti per l’approvazione del FDA si suppone vengano rivisti dagli Institutional Review Boards (IRB’s) per essere sicuri che questi studi non pongano rischi indebiti ai soggetti di studio. Membri di questi Boards sono stati trovati essere consulenti altamente pagati dalle Case farmaceutiche i cui protocolli essi stessi rivedono. Così, essi hanno ovvi conflitti di interesse e non sono revisori obiettivi privi di condizionamenti nei confronti di studi su psicofarmaci sui quali esercitano un parere” (5). Anche E. Valenstein, nel suo bel lavoro Blaming the Brain, dà una lucida descrizione degli intrecci di interessi tra Case farmaceutiche, psichiatri ed ambienti della ricerca ed accademici (6).
Il DSM e il “disturbo di attenzione” nei bambini
Abbiamo accennato al ruolo del Manuale diagnostico USA nel rinforzo delle tendenze a separare l’osservazione e il trattamento dai contesti di vita e dalle modalità che i soggetti usano per fare fronte alle difficoltà inerenti. Non si tratta solo di dinamiche familiari o sociali in senso stretto (cioè quelle direttamente esperite da soggetti interessati nei loro rispettivi ambienti). Risultano altrettanto importanti per la salute mentale i mutamenti di scenario, la crisi della cultura del gruppo di appartenenza, le vicende dello sradicamento dalle abitudini consuete, il dominio della cultura di massa, le difficoltà economiche, le silenziose sofferenze dei ripetuti traumi diffusi e poco valutati dai sistemi diagnostici (incidenti stradali, infortuni sul lavoro, malattie croniche invalidanti non solo del paziente, ma anche di appartenenti al nucleo famigliare).
Tra questi fattori che ho chiamato di scenario acquista un ruolo di primo piano la scuola e il suo funzionamento in relazione alla salute mentale dell’infanzia. E’ incredibile come il termine “funzionamento” sia stato ormai adottato dal DSM e dalla terminologia psichiatrica e psicologica corrente per indicare modi di comportamento e di adattamento alle situazioni, mentre poco o nulla viene indicato per quanto riguarda il “funzionamento” delle organizzazioni scolastiche ed educative. Si potrebbe studiare una correlazione tra il numero dei bambini diagnosticati come portatori di disturbi e il livello di “funzionamento” della famiglia e della scuola. All’inverso un modello medico esasperato affina le diagnosi e le sottodiagnosi (nonché le terapie farmacologiche o comunque di impronta tecnica) fino a raggiungere vertici difficilmente raggiungibili di sofisticazione a dir poco ossessiva.
Nell’ultimo parto della diagnostica USA per quanto riguarda l’infanzia e l’adolescenza (prontamente ed ossequiosamente introdotto in Italia) (7) si giunge ad elencare ben sette tipi e sottotipi del disturbo da deficit d’attenzione ed iperattività, a seconda della prevalenza di uno o di un altro dei “sintomi” rilevati. A ciò si è giunti, superando lo stesso DSM-IV, aggiungendo all’elenco il disturbo da comportamento dirompente e il disturbo oppositivo provocatorio. Insomma il dominio medico psichiatrico invade anche il campo della pedagogia! Ma, a parte ciò, i “sintomi” elencati sono quasi sempre richiesti con un avverbio incredibilmente vago e soggettivo: essi debbono essere presenti “spesso” (often).
A ciò si aggiunga anche il verbo “sembrare”. Ad esempio: “spesso non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente”. Altri esempi sono quasi ridicoli – se non fossero tragici – :”è spesso “sotto pressione” o agisce come se fosse “motorizzato”. L’atomizzazione di queste osservazioni non partecipate è altissima: i sintomi sono ben diciotto. Per la diagnosi ne sono necessari dodici.
L’efficacia del trattamento con metilfenidato (un farmaco a struttura ed azione anfetaminica) è ampiamente discutibile. Peter Bregging, che alla questione ha dedicato un importante ricerca, mai pubblicata in Italia (8), riferisce i dati conclusivi di una review (1992-93) a cura di un sostenitore del trattamento farmacologico, J.M. Swanson, sulla diagnosi e sul trattamento con metilfenidato. Ecco i risultati:
- • Non sono stati verificati benefici effetti a lungo termine dalle ricerche
- • Gli effetti a breve termine con stimolanti non dovrebbero essere considerati una soluzione dei sintomi cronici del disturbo da deficit di attenzione
- • Il trattamento stimolante può migliorare l’apprendimento in alcuni casi ma peggiorarlo in altri
- • In pratica le dosi prescritte di stimolanti possono essere troppo alte per i più favorevoli effetti sull’apprendimento, e la lunghezza dell’azione della maggior parte degli stimolanti è vista come troppo breve per influenzare i risultati scolastici
Le conclusioni finali sono assai deludenti e corrispondono con quelle di altri autori favorevoli al trattamento: “Non vi sono ampi effetti sulle abilità (skills) o sui processi di ordine elevato”. E infine: “Non c’è miglioramento nell’adattamento a lungo termine”.
Si può affermare che la diagnosi di DDA, con i suoi connessi, è una diagnosi psichiatrica inconsistente e pericolosa. Inconsistente per le modalità con cui si determina, pericolosa per le conseguenze sociali di una diagnosi psichiatrica socialmente stigmatizzante e per il trattamento che mette a rischio la salute mentale del bambino. Di ciò dovevano essere persuasi gli elaboratori del sistema diagnostico ICD dell’OMS/WHO, quando limitavano la diagnosi di “Disturbo dell’attività e dell’attenzione” con le seguenti osservazioni piene di cautela, assolutamente mancanti nell’approccio USA: “Esiste tuttora incertezza circa la suddivisione più soddisfacente delle sindromi ipercinetiche. Comunque studi longitudinali mostrano che l’esito nell’adolescenza e nell’età adulta è molto influenzato dall’eventuale associazione con aggressività, delinquenza o comportamento antisociale. Pertanto la suddivisione principale viene fatta in base alla presenza/assenza di queste caratteristiche associate”. Appare evidente qui la preoccupazione per gli esiti a distanza dell’inquadramento diagnostico associato ad un trattamento farmacologico.
Psicofarmaci ai bambini
A questo proposito, si sta assistendo ad una diffusione, presso i pediatri e i neuropsichiatri infantili, di trattamenti farmacologici a largo raggio anche con farmaci esplicitamente “sconsigliati” dai prontuari farmaceutici. Ed è di questi giorni una messa a punto del National Institute of Mental Health americano sulla restrizione all’uso dei nuovi antidepressivi nell’infanzia, eccetto la fluoxetina. Da alcune ricerche si sarebbe riscontrato un tasso di suicidi più elevato nei trattati con antidepressivi che nei non trattati. La nota osserva che “c’è stato un drammatico aumento negli ultimi anni nell’uso di antidepressivi nei bambini e adolescenti di età compresa tra 10 e 19 anni”. Appare evidente la cautela con cui si muovono gli esperti del NIMH, nel sottolineare come sia difficile valutare questo aumento e come però dai clinical trials siano già esclusi i soggetti con rischio di suicidio o che l’abbiano già tentato. Poi aggiungono che “la psicoterapia è il trattamento di prima scelta per il trattamento della depressione nei bambini ed adolescenti”(9). Meno attenti all’aggiustamento diplomatico due interventi, anche questi recentissimi, del Lancet (10) e del Canadian Medical Association Journal (11). Il Lancet accusa: “L’uso degli antidepressivi di nuova generazione (SSRIs, Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) per trattare la depressione nell’infanzia è stato incoraggiato dalle Case farmaceutiche e dai clinici di tutto il mondo. Il mese scorso il Canadian Medical Association Journal ha rivelato estratti da un memorandum interno della GlaxoSmithKline che dimostrava come la Casa cercasse di manipolare i risultati di ricerche pubblicate. A proposito di uno studio sull’uso della paroxetina nei bambini, il memorandum afferma: “Sarebbe inaccettabile includere una dichiarazione che l’efficacia non è stata dimostrata in quanto ciò metterebbe in pericolo il profilo della paroxetina”. “L’anno scorso – prosegue il Lancet – il Comitato sulla sicurezza dei farmaci dell’ UK proibì il trattamento della depressione infantile con ogni tipo di SSRI eccetto la fluoxetina. A dispetto di ciò la FDA negli USA la settimana scorsa non ha agito appropriatamente sull’informazione che le è stata fornita sull’inefficacia e pericolosità per i bambini di questi farmaci”.
Il CMAJ dal canto suo aveva fornito una documentazione riservata della GlaxoSmithKline molto compromettente e dimostrativa della subordinazione della sicurezza e della efficacia del trattamento alle esigenze della diffusione di mercato di un prodotto. Ecco un passo del memorandum, già in precedenza citato: ”Il CMA (Central Medical Affairs Team) della Casa farmaceutica citata raccomanda la ditta di “gestire efficacemente la disseminazione di questi dati allo scopo di minimizzare ogni potenziale impatto commerciale negativo”.. La rivista aggiunge che la spesa per il farmaco in questione (Seroxat) ammonta a circa a 4.97 miliardi di dollari nel 2003 in tutto il mondo. Lo studio 329, condotto negli USA dal ’93 al’96, fu il più ampio trial sull’uso di un SSRI nella popolazione pediatrica. I risultati indicavano che la paroxetina non era più efficace del placebo. Addirittura in uno studio condotto in Europa e Sud America, il placebo risultava più efficace del farmaco. Il CMA citato ha poi organizzato un Meeting dell’ European College of Neuropsychopharmacology nel 1998 in cui si sottolinea che si debbono riportare risultati positivi (“sarebbe commercialmente inaccettabile includere affermazioni di inefficacia”).
La cosa grottesca e drammatica al tempo stesso è rappresentata dal fatto che lo studio in questione è stato poi pubblicato (12). Gli autori concludono che la paroxetina “è generalmente ben tollerata ed efficace per la depressione maggiore in adolescenza”. Sui 93 casi di adolescenti ci furono 5 casi seri di “labilità emozionale” (cioè idee o gesti di suicidio). Sui 95 casi che prendevano un antidepressivo tradizionale (tofranil) ci fu un solo caso di questo tipo e tra gli 89 con placebo pure solo uno. Un’agenzia indipendente britannica (Britain’s Medicines and Healthcare Regulatory Authority, MHRA) avvisò i medici nel giugno 2003 che la paroxetina non si sarebbe dovuta prescrivere in soggetti sotto i 18 anni, per l’evidenza di suicidio da 1.5 a 3.2 più alta in coloro in trattamento con il farmaco rispetto al placebo. Seguirono rapidamente la Francia e l’Irlanda. Non si fa menzione dell’Italia, ma speriamo che si sia uniformata prontamente a questa decisione presa in Europa. L’MHRA ha bandito l’uso negli adolescenti e nell’infanzia dei tutti i SSRI tranne la fluoxetina, e sta valutando l’uso di questi farmaci negli adulti. Una stima stabilisce in 11 milioni gli americani e in 3 milioni i canadesi che assumono antidepressivi.
La strategia delle Case farmaceutiche
Il problema fondamentale, accanto a quello dell’orientamento massiccio e talvolta esclusivo della scelta del farmaco da parte degli specialisti in psichiatria, è quello denunciato ancora una volta da Lancet. Chi assicura l’obiettività degli studi quando il presidente dell’organizzazione, in Gran Bretagna, che recluta i volontari per le ricerche (John Bell, capo della UK Biobank) è anche direttore della Casa farmaceutica Roche?
In aggiunta – continua Lancet – la maggior parte dei finanziamenti richiesti per completare il progetto viene da fonti industriali. “Con questo livello di coinvolgimento, si sentirà veramente obbligata una Casa farmaceutica a pubblicare informazioni sulla inefficacia di uno dei prodotti?” Ma il problema non sta solo in questa sovrapposizione. A dispetto di tutte le ricerche che dimostrano la non grande superiorità nell’efficacia di uno psicofarmaco sul placebo e soprattutto sui farmaci più tradizionali, vi sono giornali e riviste a grande tiratura che sembrano degli inserti pubblicitari. Vorrei segnalare come esempio deteriore di questo tipo l’inserto del Corriere della sera del 4 aprile scorso, che sotto il titolo incredibile di “Medicine per il buon umore”, nel riaffermare la certezza della genesi organica della depressione (“La carenza di serotonina causa disturbi del sonno, irritabilità. La carenza di noradrenalina (che regola attenzione e vigilanza) può contribuire al senso di affaticamento e al calo dell’umore. Queste conoscenze hanno permesso la messa a punto di farmaci, il cui scopo è riequilibrare la disponibilità e il funzionamento nel cervello di queste sostanze chimiche”) addirittura allarga all’80-90% il tasso dei pazienti che “rispondono al trattamento” mentre afferma ottimisticamente che “quasi tutti i pazienti sottoposti a terapia ottengono il miglioramento quantomeno di alcuni sintomi”. Un capitoletto intende poi tranquillizzare sulla sicurezza degli SSRI a proposito dei rischi di suicidio, senza in alcun modo accennare alla grave questione cui si è fatto cenno sopra. Il titolo è infatti eloquente: “Le pillole diminuiscono il rischio di suicidio”. Come abbiamo visto, almeno per quanto riguarda gli adolescenti, gli studi hanno dimostrato che ciò non corrisponde a verità. Il fatto è che il farmaco soffre ad essere considerato una merce come tutte le altre.
E proprio questa riduzione a merce è stata denunciata qualche anno fa dal Guardian a proposito di un SSRI (paroxetina, nome commerciale in USA: “paxil”, in Italia “seroxat”) che non trovava uno sbocco adeguato. Come si fa per un prodotto qualsiasi, la ditta in questione (guarda caso ancora la GlaxoSmithKline) ha affidato ad una agenzia competente, la Cohn & Wolfe, la promozione del prodotto. “Il modus operandi della GlaxoSmithKline – scrive il Guardian – è tipico dell’era post-Prozac: promuovere il mercato di una malattia piuttosto che vendere un farmaco”. Attraverso campagne volte ad attirare persone insicure ed in crisi a riconoscersi in una nuova malattia del DSM, il “disturbo d’ansia generalizzato” (GAD) con l’ausilio di pubblicità ma anche con partecipazione a trasmissioni televisive di grande ascolto, è stato creata l’attesa per una risposta farmacologica al disturbo che è stato chiamato “fobia sociale” ma anche, con una elegante metafora, “allergia per la gente”.
Una volta preparato il terreno ed ottenuta l’approvazione da parte delle Autorità, il farmaco è stato gettato sul mercato (ovviamente stimolando anche gli specialisti a prescriverlo). Il Guardian, che riprende un articolo del periodico USA Mother Jones, cita i ricercatori che, pur essendo sul libro paga della Casa farmaceutica, si spacciavano per esperti indipendenti. Risultato: nel giro di due anni il paxil aveva soppiantato un altro farmaco concorrente come numero due nelle vendite dopo la fluoxetina.
Interessante da riportare: il successo della campagna della Cohn & Wolfe non sfuggì all’industria. I giornali commerciali plaudivano alla GlaxoSmithKline per aver creato una “forte posizione anti-ansia” assicurando un brillante futuro al paxil. Si è parlato di “espandere il mercato dell’ansia” e si sono fatte previsioni sui profitti, stimati per il 2009 a 3 miliardi di dollari. Se questa è salute mentale…. (13)
Considerazioni conclusive
Mi sono limitato, nella presente relazione, alla descrizione di qualcuna delle principali contraddizioni all’interno delle strategie di dominio del mercato psicofarmacologico. Naturalmente non si può ignorare quanto influiscano sulla salute mentale altri poteri altrettanto forti. Tra essi quelli che si possono definire largamente politici, ma anche quelli amministrativi, accademici e della ricerca. Tuttavia essi appaiono oggi ampiamente condizionati dallo sviluppo attuale del sistema dei mass-media e da quella “asimmetria” che Joseph Stiglitz attribuisce all’informazione in senso lato, dominata dalla logica del profitto.
Ho anche osservato, sul versante più propriamente tecnico-professionale,che la maggior distorsione apportata dall’enfasi corrente sul trattamento farmacologico dei disturbi psichici è data dall’azzeramento di ciò che è culturale e sociale, come anche storico-biografico. Testi conclusivi e diffusi, come la già citata “Guida alla diagnosi dei disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza”, nel momento in cui presentano “casi clinici”, lo fanno con una singolare cecità per gli aspetti storico-biografici, che permette di concentrare tutta l’attenzione sui “sintomi” e sulla pretesa dignità dei loro raggruppamenti.
La questione fondamentale, sul versante scientifico e professionale, è se il focus viene portato sull’obiettivo della correzione di un preteso disfunzionamento dei mediatori cerebrali o sulla ricostruzione, assieme al paziente e al suo contesto, di ciò che gli è accaduto, sui possibili motivi della comparsa di ciò che chiamiamo disturbo e sui modi per fronteggiarlo.
Il trattamento farmacologico rischia di lasciare il paziente inerte di fronte all’azione della sostanza che, come sappiamo, non è priva di insidie e di disturbi addizionali. Recentemente, proprio sui “nuovi” antidepressivi ed antipsicotici, si sono levate voci di allarme da parte di associazioni di utenti sia per gravi effetti collaterali sia per il rischio di dipendenza.
Ma il rischio maggiore appare quello della “riduzione” (e il termine non è casuale) della vita quotidiana dell’essere umano a funzionamento cerebrale. In questo modo non solo si taglia tutta la ricchezza e la peculiarità di ciascun evento individuale, ma si ignora anche il contesto sociale, economico e politico in cui tali eventi e la stessa “riduzione” si producono.
(Relazione al Congresso Internazionale “Farmaci e Salute Mentale” tenutesi all’Istituto Superiore di Sanità a Roma il 14 maggio 2004 )
Nota: accordi internazionali hanno assicurato vantaggi consistenti e privilegi alla Case farmaceutiche occidentali a partire dall’Uruguay Round del 1995. La WTO, cioè l’Organizzazione mondiale del commercio, ha rafforzato i diritti di proprietà intellettuale. In questo modo le Case farmaceutiche occidentali potevano impedire alle loro omologhe in India e in Brasile di “violare” la loro proprietà intellettuale, mettendo farmaci salvavita a disposizione di cittadini ad un prezzo minimo nei confronti di quello praticato dalle Case occidentali. Nel caso dell’AIDS, lo sdegno a livello internazionale è stato tale che le Case farmaceutiche alla fine del 2001 si sono trovate costrette a fare marcia indietro e ad accettare una riduzione dei listini vendendo i medicinali a prezzo di costo. Ma il problema di fondo rimane irrisolto: il regime di proprietà intellettuale stabilito dall’Uruguay Round non è equilibrato, in quanto riflette in modo preponderante gli interessi e il punto di vista dei produttori anziché degli utenti, sia nel mondo industrializzato che in quello in via di sviluppo. (Vedi J. Stigliz, La globalizzazione ed i suoi oppositori, Einaudi 2002). Anche altre organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario internazionale sostengono l’economia dei Paesi forti, e per quanto riguarda la salute mentale, propagandano, anzi richiedono tassativamente l’uso del DSM anziché quello dell’ICD dell’OMS/WHO, per ricerche e finanziamenti sulla salute mentale. Si sono anche manifestate critiche sul programma Investing in Health della Banca Mondiale (1993) poiché si è occupata prevalentemente delle risposte di cura e per niente di quelle della prevenzione e della riabilitazione. In particolare è stato osservato che “poca attenzione viene riservata alla salute mentale…inoltre molti dei problemi più profondi per la salute e il benessere delle comunità e degli individui: violenza, alcolismo, tossicodipendenza, sfruttamento dei bambini, mancanza di alloggio, discriminazione e violenza contro le donne, violenza etnica o politica, e sradicamento di intere comunità, sono appena toccati”. Su questi temi vedi: R. Desjarlais, L. Eisenberg, B. Good, A. Kleinmann, World Mental Health. Problems and Priorities in Low-Income Countries, New York – Oxford, Oxford University Press, 1995, ed. italiana, La salute mentale nel mondo, Il Mulino 1998
Note bibliografiche:
(1) M. Angell, Is Academic Medicine for Sale?, The New England Journal of Medicine, May 18, 2000
(2) J. Scott, Psychological Treatment for Depression, British Journal of Psychiatry, 1995, 167, 289-292
(3) S. Garattini, Maggiore prudenza sui nuovi medicinali, Il Sole 24 ore, Sanità, 16-12 marzo 2004
(4) R. Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria, Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Franco Angeli, 1998 (pag. 121)
(5) L. Mosher, How Drug Company Money Has Corrupted Psychiatry, www.antipsychiatry.org/mosher.loren.1.htm
(6) E. Valenstein, Blaming the Brain, The truth about Drugs and Mental Health, The Free Press, New York, 1998. Vedi in particolare il cap. 6 “How the pharmaceutical industry promotes drugs and chemical theories of mental illness”
(7) J.L. Rapoport, D.R. Ismond, DSM-IV, Guida alla diagnosi dei disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza, ed. it. a cura di v. Caretti, N. Dazzi, R. Rossi, Masson, 2000
(8) P.R. Bregging, Talking back to ritalin, Common Courage Press, Monroe, 1998 (pagg. 101-102)
(9) NIMH, Antidepressant Medications for Children: Information for Parents and Caregivers, www.nimh.nih.gov/press/Stmntantidepmeds.cfm
(10) Depressing research, The Lancet, vol. 363, number 9418, 24 april 2004
(11) Drug Company experts advised staff to withhold data about SSRI use in children, Canadian Medical Association Journal, 2 mar. 2004, 170
(12) Journal Am. Acad. Child Adolesc. Psychiatry, 2001, 40 (7). La citazione in Canadian Medical Association Journal, 2 mar., 2004, 170
(13) B.I. Koerner, First, you market the disease…then you push the pills to treat it, The Guardian, July 30 2002.