Progetto pilota di Cittadinanzattiva per valutare carenze e buone prassi nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura
MILANO – Strutture spesso fatiscenti o poco accoglienti, familiari impreparati a riconoscere i segni precoci della crisi, un dipartimento o centro di salute mentale su tre che non realizza iniziative di informazione e coinvolgimento della popolazione per combattere lo stigma, carenza di informazioni su come accedere ai servizi e sul loro funzionamento: note dolenti di un settore delicato, quello della salute mentale.
IL RAPPORTO – Sono alcuni dei punti critici evidenziati dal primo Audit civico nell’area della salute mentale realizzato da Cittadinanzattiva, progetto pilota svolto in collaborazione coi dipartimenti di salute mentale (Dsm), i servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) e i centri di salute mentale (Csm) di sei Aziende sanitarie di Lombardia, Liguria, Veneto, Abruzzo e Campania, che hanno accettato di far valutare i loro servizi da cittadini e operatori sanitari. Analizzati anche i dati relativi a 99 centri di salute mentale valutati con l’Audit civico classico, presentato lo scorso giugno a Roma; un’altra indagine ha messo a fuoco i bisogni di 321 pazienti dei centri di salute mentale della provincia autonoma di Trento.
SEGNALAZIONI – «Negli ultimi anni sono aumentate le segnalazioni giunte a Pit Salute – spiega Michela Liberti, che ha coordinato il rapporto -. Hanno chiamato soprattutto persone tra i 23 e i 53 anni, denunciando in particolare difficoltà di accesso alle cure e situazioni insostenibili in famiglia, ma in alcuni casi anche uso massiccio di psicofarmaci o porte chiuse a chiave e persone legate in molti Spdc». Da qui la decisione di avviare un Audit civico per «rilevare le maggiori criticità ma anche valorizzare le buone pratiche. Hanno deciso di aderire sei aziende sanitarie italiane che ovviamente non rappresentano tutte le strutture italiane», sottolinea Liberti. Ma ecco i principali risultati.
SICUREZZA DEI PAZIENTI – Buona nei Dsm e negli Spdc, mentre in nessun Centro di salute mentale ci sono linee guida scritte per la prevenzione delle crisi e solo nel 40% è prevista una procedura per identificare i pazienti a rischio di suicidio. Mancano, poi, operatori attivi sul territorio anche nei giorni festivi per effettuare interventi domiciliari programmati e per intervenire in caso di crisi.
INFORMAZIONE – Si registra un’analoga discrepanza tra le strutture. Nei centri di salute mentale è carente la presenza di opuscoli informativi su diritti dei pazienti, su servizi offerti e su nomi degli operatori, nei Dsm e negli Spdc vengono rispettate le procedure per la tenuta della cartella clinica e per la richiesta del consenso informato scritto.
UMANIZZAZIONE DELLE CURE – Il 60% dei servizi psichiatrici ha più di 15 posti letto violando la normativa di riferimento; in nessun centro di salute mentale sono presenti distributori di acqua gratuita nelle sale di attesa; esistono ovunque, invece, ambienti separati per i pasti, mentre nell’80% dei servizi psichiatrici sono a disposizione parrucchiere e barbiere.
INSERIMENTO LAVORATIVO – Scarse le attività per l’inserimento lavorativo di chi soffre di disturbi mentali: solo la metà dei dipartimenti e ancor meno dei centri (40%) organizza incontri con i datori di lavoro per valutare la possibilità di inserimento degli utenti.
RACCORDO FRA I SERVIZI SANITARI – L’integrazione tra i servizi sanitari è buona o discreta, manca però quella con gli altri servizi, come forze dell’ordine e magistratura (solo nella metà dei servizi, in tutti e tre i livelli); in tutti i dipartimenti osservati sono assenti procedure scritte di collaborazione con i distretti scolastici, la medicina scolastica, il servizio materno infantile e con i consultori; e solo due Dsm dispongono di procedure di collaborazione con i servizi di assistenza ai disabili e agli anziani. Solo in due dipartimenti e in due centri esistono procedure scritte di collaborazione con il servizio di neuropsichiatria infantile.
RAPPORTI CON LE FAMIGLIE – Si passa dal giudizio mediocre dei Dsm a quello discreto degli Spdc e dei Csm dove le famiglie sono considerate “risorse” utili nella gestione del paziente, anche se non sono percepite come interlocutori quando si devono prendere delle decisioni. In questo caso, dunque, sono i servizi più operativi a mobilitarsi, formando, per esempio, i familiari in modo che riconoscano i segni precoci delle crisi e collaborino al trattamento farmacologico del paziente.
E CON LA COMUNITÀ – Il mutuo aiuto è una realtà per diversi territori, ma stenta a decollare in molti altri. Tutti i centri di salute mentale collaborano con organizzazioni di volontariato o non profit ma non sempre ci sono iniziative che affiancano ai pazienti gravi, privi di aiuto familiare, un volontario o un vicino.
INDAGINE A TRENTO – Anche dall’indagine svolta nella provincia autonoma di Trento si rilevano le aree critiche rilevate dall’Audit civico. Tra le principali difficoltà segnalate dagli utenti dei centri di salute mentale intervistati ci sono l’isolamento, la compromissione delle relazioni interpersonali e il mancato inserimento sociale e lavorativo. Altro problema segnalato riguarda la qualità dell’informazione sul farmaco: il 27% degli intervistati non ritiene sufficienti le informazioni ricevute sulle sue modalità di azione, il 36% quelle relative agli effetti collaterali, il 54% quelle sulla durata presunta di assunzione. E un utente su tre dichiara di aver smesso di assumere farmaci senza consultare il medico a causa di effetti collaterali, per la mancata accettazione della malattia e la convinzione di non averne bisogno, l’intontimento, la paura della cura.
Maria Giovanna Faiella
20 luglio 2010