Di Angelo Venchiarutti e Peppe Dell’Acqua
[parte del contributo pubblicato nel fascicolo n. 2/2019 della Rivista Responsabilità medica – Diritto e pratica clinica]
Angelo Venchiarutti
Circa quaranta anni fa, il 13 maggio 1978, veniva approvata dal nostro Parlamento la legge 180, poi conosciuta come “Legge Basaglia”. Qualche mese dopo, la disciplina sarebbe confluita nella legge n. 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.
Sono più d’una le innovazioni che la legge 180 ha introdotto nel nostro ordinamento: la cura delle malattie mentali è stata integrata finalmente nell’ambito del servizio sanitario nazionale, ponendo fine alla competenza della Province in materia di assistenza psichiatrica; radicali sono state le modifiche nella cura delle persone con disturbo mentale. Prima di discutere più nel dettaglio del contenuto della legge 180, Ti chiederei, però, di ricordare le esperienze e i cambiamenti culturali che hanno preceduto l’approvazione di quella normativa.
Peppe Dell’Acqua
Le pratiche che sostennero il lavoro di apertura di Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico a Gorizia, di Carlo Manuali a Perugia, di Sergio Piro a Materdomini, in provincia di Salerno, e di altri in altre zone dell’Italia avviarono, a partire dai primi anni ’60, una stagione di cambiamenti negli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione delle persone affette da disturbi mentali.
Basaglia diventa direttore del manicomio di Gorizia nel novembre 1961. È un giovane medico, non ancora quarantenne. Proviene dall’Università di Padova, dove libero docente è il responsabile del repartino psichiatrico presso la clinica neurologica (Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, Merano, 2018).
Prima di allora non ha mai visto un manicomio. A Gorizia, vede non solo la violenza delle porte chiuse, delle contenzioni, delle divise. Vede una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Avverte la vertigine del vuoto, la solitudine dell’assenza. È questa la dolorosa condizione che lo interroga e lo sconvolge. È questa la realtà dei manicomi italiani che è davanti agli occhi di tutti ma che nessuno riesce a vedere. Basaglia per vedere, deve fare ricorso proprio alle sue letture “ filosofiche”, che sono già state oggetto di una paterna attenzione di stima del suo direttore padovano. Con altri giovani colleghi si era interessato difatti al lavoro critico sulla persistenza del positivismo scientifico in medicina e in psichiatria e sull’evidenza di considerare la presenza del soggetto nel campo dello studio dei disturbi mentali e alla cura.
Cosa fare per far tornare i corpi vivi, le voci, le memorie di tutta quella dolente umanità? Deve interrogarsi su cosa è la psichiatria, sui suoi presunti fondamenti scientifico/biologici, riconoscere la presenza immutata e devastante del paradigma medico, della prepotente cultura figlia del positivismo scientifico che costringe ogni respiro a oggetto. Di fronte alla violenza e all’orrore che scopre è costretto a chiedersi angosciato: «Che cos’è la psichiatria?» (aa. vv., Che cos’è la psichiatria?, a cura di Basaglia, rist., Milano, 1997). Da qui l’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico, del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita, il manicomio, le culture e le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: “il malato e non la malattia”.
Era la malattia che nascondeva ogni cosa: i nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non potevano più abitare quel luogo. Così, messa tra parentesi la malattia, svegliandosi da un lungo sonno, tutti cominciarono come per incanto a chiamarsi per nome, a raccontare una storia, a ricordare un villaggio, a riprendersi il proprio tempo. Ora di fronte a Maria, a Gio- vanni, a Elia, a Romildo le porte chiuse non potevano più essere tollerate. La vergogna a restare in quel luogo divenne insopportabile. Cominciarono allora a venire aperte le porte; iniziarono a venire abolite tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile un altro modo di curare, di ascoltare, di esserci e riconoscersi. Fu possibile vedere il malato e non la malattia, le storie singolari e non le diagnosi, di vivere la propria vita malgrado tutto. Fu possibile denunciare le storture e la vergogna di due secoli di istituzioni totali.
Ho negli occhi qualche fotogramma de La favola del serpente, un bel documentario che una giovane giornalista finlandese, Pirko Peltonen, gira a Gorizia nel 1968 per la televisione del suo Paese. Alcuni degenti sono contrari alle riprese, altri le approvano e pensano che sia utile proprio per loro far sapere a tutti che cosa stia accadendo in quel manicomio ai confini del mondo. L’assemblea di quel giorno ne discute sotto l’occhio della sedici millimetri. Alla fine si vota. Il presidente dell’assemblea invita ad alzare la mano per il sì, e conta. Poi per il no e conta. Vinceranno i sì, le riprese si faranno. Il fotogramma che ho negli occhi sono le mani alzate. Uomini e donne che votano. Alludono all’immane cammino che li aspetta (aa. vv., L’istituzione inventata. Almanacco, Trieste 1971-2010, a cura di Rotelli, Merano, 2018).
I malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini. Entrano sulla scena con la loro singolarità, la diversità e i bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro della malattia. “Messa tra parentesi la malattia”, si scopriva la possibilità di vedere la malattia stessa ora in relazione alle persone e alla loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà. La libertà intesa come possibilità di desiderare, di scoprire i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di attraversarla e costruire le infinite e minime declinazioni per renderla accessibile (Minkonsky, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, 2004).
Angelo Venchiarutti
Torniamo sul piano delle riforme legislative. Credo vada ricordato come la consapevolezza sullo stato di arretratezza e inadeguatezza più che drammatico degli istituti psichiatrici esistente non soltanto in Italia divenne, in quegli stessi anni, via via più diffusa: mi riferisco tra l’altro, alle tante inchieste giornalistiche, alle indagini condotte anche per iniziativa del Ministero della Salute. Lo stesso ministro della Sanità Luigi Mariotti giungeva a paragonare gli ospedali psichiatrici a lager (che costituiva, in quegli anni, un’immagine, oltre che drammatica, molto attuale). Anche a seguito di queste denunce, si giunse ad una parziale mu- tamento di tendenza con legge n. 431 del 18 marzo 1968. Ricordo che, pur costituendo solo uno stralcio del più ambizioso testo di riforma messo a punto in quegli anni dallo stesso ministro Mariotti, la nuova legge cercava di eliminare le tracce della funzione repressiva dall’ospedale psichiatrico e di portare in primo piano il fine terapeutico dell’assistenza psichiatrica. A fianco degli ospe- dali psichiatrici, venne prevista la presenza dei centri di igiene mentale, e affermato il principio dell’assistenza psichiatrica proiettata sul “territorio”. Era il primo, pur se parziale, superamento, della centralità del manicomio. La legge poi introdusse, pur senza abolire la normativa precedente sui ricoveri d’autorità, la facoltà per il malato, di chiedere volontariamente la sua ammissione in ospedale psichiatrico, per accertamento diagnostico e cura. Cominciava ad affermarsi un diritto alla salute prevalente su ogni interesse di ordine pubblico. Una lettura dell’art. 32 della Costituzione – ove il diritto alla salute viene configurato come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” – in termini non meramente programmatici bensì nel segno dell’immediata percettività comincia ad affermarsi del resto anche tra gli studiosi del diritto proprio nel corso degli anni ’60 del secolo scorso.
Per giungere ad una complessiva riformulazione della materia, ci vorrà ancora del tempo. Il nostro Parlamento, che da anni discuteva intorno a vari progetti di riforma sanitaria, giunse a varare la legge n. 180 il 13 maggio 1978, pur in una fase drammatica della vita del nostro Paese: pochi giorni prima era stato ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. La legge, dal titolo emblematico Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, costituisce l’approvazione anticipata di alcune disposizioni della normativa istitutiva del Servizio sanitario nazionale: approvazione volta ad evitare la celebrazione del referendum abrogativo della vecchia legge manicomiale del 1904.
La legge 180 rimarrà in vigore pochi mesi. Il suo testo verrà poi trasfuso in alcuni articoli della legge n. 833 del 23 dicembre 1978, istitutiva appunto del Servizio sanitario nazionale. La portata innovativa della legge è ben nota nel suo complesso. In questa sede basta ricordare che il manicomio riceve una condanna senza appello. Il legislatore supera la concezione custodialistica nell’approc- cio alla malattia mentale, abbandona ogni motivo funzionale alla difesa della società, cancella del tutto la presunzione di pericolosità sociale del malato di mente, mette in evidenza il tema del diritto alla salute.
Sul piano degli interventi sanitari, viene accolto senza riserve il principio della volontarietà, come regola, e della eccezionalità dell’intervento pubblico d’autorità, specie in regime di ricovero ospedaliero. Principio che trova la sua forza ispiratrice nel 2° comma dell’art. 32 della Costituzione (alla cui redazione aveva contribuito lo stesso Aldo Moro in sede di Assemblea Costituente: Piccione, Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione, Merano, 2014) secondo cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge e secondo cui la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Il legislatore del 1978 mostra di riservare un’attenzione particolare proprio al testo della Costituzione, nel momento in cui stabilisce che gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, previsti dalla legge, possano essere disposti dall’autorità sanitaria nel rispetto della dignità e dei diritti civili e politici garantiti della persona, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura, e ritiene che la collaborazione personale dell’interessato vada sempre ricercata in ordine ad ogni aspetto della cura da effettuare.
Va poi evidenziato come, nelle previsioni della legge, oltre alla progressiva soppressione degli ospedali psichiatrici (cfr. art. 7, comma 5°, l. 180/78), si contempla l’indicazione circa l’apertura di una pluralità di centri e servizi di assistenza, distribuiti in tutto il territorio: da quel momento in poi attraverso questi nuovi dispositivi organizzativi e mezzi di cura dovranno svilupparsi, di norma, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nei confronti delle persone affette da disturbi mentali.
Peppe Dell’Acqua
In effetti, con la legge 180 non è più lo Stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non vi è più il malato di mente pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo, ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale: quello della salute.
Cambiamenti legislativi, culturali, istituzionali hanno restituito la possibilità ai malati di mente di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire.
Da quel momento il campo del lavoro terapeutico è davvero cambiato. Esistono oggi associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria storia, raccontano le loro singolari rimonte, vogliono vivere malgrado la malattia; sono presenti sulla scena associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, al silenzio, a sentirsi colpevoli (Dell’Acqua, Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi, Milano, 2010). Si pensi alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale: si scoprono così le molteplici opportunità di cui dispongono oggi le persone con disturbo mentale. La cooperativa sociale come luogo per formarsi, per entrare nel mondo del lavoro, per riprendere un ruolo sociale e un posto in famiglia. Qui si incontrano uomini e donne che lavorano, che guidano l’automobile, che hanno figli, che vivono con serenità nella loro famiglia, che si scommettono quotidianamente nella normalità e nella fatica delle relazioni.
La legge, malgrado resistenze ostinate e un percorso in molte regioni lento e faticoso, ha dimostrato che è possibile cambiare e in tanti luoghi si sono realizzate profonde trasformazioni e radicate le buone pratiche. Ma non a tutti i cittadini del nostro paese e non dovunque è garantita una tale possibilità.