di Roberto Bosio.
Se facendo un passo indietro nel tempo ricordiamo che Caruso[1] nel 1977 osservava: “…il medico è un tranquillizzante sociale, perché attenua o elimina le tensioni sociali, …perché deve recuperare al ciclo produttivo la forza lavoro,… perché isola o integra ogni devianza impedendo che questa si trasformi in coscienza alternativa al sistema…”, e se consideriamo come nella “società attuale il controllo sociale, non più delegato alla sfera del sacro, è esercitato dalla comunità, innanzitutto attraverso il processo di socializzazione che garantisce, in linea di principio che tutti interiorizzino e seguano le norme della società”[2], abbiamo immediatamente presente quanto i concetti inerenti alla mission della riabilitazione siano intriganti oltre che complessi.
Potremmo intendere che se l’integrazione delle persone nella società si estrinseca nella capacità di un individuo di prevedere ciò che gli altri si aspettano da lui –raggiungimento della conformità- quando ciò fallisce si rendono necessari interventi della società, spesso sanzionatori od escludenti (stigmatizzanti), atti a rafforzare le norme “condivise”, ma anche a definire la devianza dalla propria norma sociale.
E forse per questo, il termine riabilitazione, così usato e noto, paradossalmente, é divenuto poco chiaro o, in ogni caso, riempito di contenuti diversi e non sempre fra loro coerenti.
Infatti se alla mission segue lo stile operativo, si capirà come a diverse interpretazioni di mission possono essere correlati ovvi diversi stili operativi.
Del resto il laccio dello psichiatra consta nella sua azione riabilitativa intesa in termini di recupero della soggettività, della dignità e del diritto di appartenenza delle persone in istituzionalmente definiti concetti di normalità più che in accettate valorizzazioni delle diversità.
Così ci si dibatte fra le esasperate ed esasperanti esperienze di paracomunità più o meno totalizzanti e parasociali, e aspetti individuali di riabilitazioni tendenti alla normazione per il conseguimento dell’adeguatezza e conseguente accettazione con da un lato il rischio di avviare gruppi sociali protetti di persone (dentro la società in ambiti definiti, cioè fuori) e dall’altro di avviare sofferti e cronici percorsi di attesa di accettazione (o miracolo).
Per fortuna che fra il bianco ed il nero esiste una valida ed infinita scala di grigi che riesce a soddisfare le esigenze più diverse!
Le cose possono essere ulteriormente complicate dovendo necessariamente considerare il “riabilitatore” ed il suo rischio di ritenere di essere, oltre che abilitati ad abilitare, implicitamente obbligati dall’istituzione ad individuare categorie, energie, possibilità, inclusioni, esclusioni e quant’altro per altre persone, ricordando Cooper[3], i medici e gli infermieri dovrebbero essere “…divenuti capaci di sanità per averla preferita alla normalità”.
A nostro giudizio il mantenimento della tensione al quesito: “si riabilita chi, a che cosa e perchè” rappresenta non tanto un .dubbio apparentemente legato ad ideologie di qualche anno fa, ma l’elemento caratterizzante la qualità del proprio operare poiché rappresenta il presupposto necessario alla definizione del “come”.
Conseguentemente a quanto sopra, considereremo la riabilitazione come quell’ impegno di persone che tentano di scoprire e aiutare altre persone che chiedono o in qualche modo segnalano la necessità di risvegliare e riconoscere le potenzialità in loro stesse esistenti per propri stili di vita più efficaci, efficienti, sereni recuperando la propria soggettività con un miglioramento della propria qualità della vita.
Una differenza non da poco quella fra oggetto e soggetto che sempre ha rappresentato nei macro sistemi un nodo di rilevanza particolare per la gestione ed il mantenimento del potere.
In fondo il problema della gestione del potere all’ interno di un contesto sociale é uno degli obiettivi dell’istituzione, e allora la riabilitazione potrebbe contenere anche la distribuzione del potere riabilitativo divenendo strumento funzionale alla definizione continua di differenze e subalternità o classi.
Uno degli obiettivi di Basaglia[4] era proprio il superamento delle differenze fra le persone per quella definizione di differenza offerta dal sistema …
E l’ eguaglianza del diritto e della dignità fra le persone non può che attraversare la valorizzazione delle differenze, salvaguardando la unicità della soggettività e cosi, offrendo la possibilità dell’alternativa, del cambiamento dell’evoluzione.
Basaglia, in diverse occasioni ricorda la fondamentale funzione della definizione di differenze, e ben sapeva come il loro riconoscimento, accettazione ed elaborazione fosse anche lo strumento di innesco per il cambiamento: modificazione di situazioni omeostatiche.
L’istituzione può, e i fatti della nostra storia recente lo dimostrano, accettare solo lenti e calibrati cambiamenti individuati e gestiti da chi ritiene di poterlo fare anche attraverso i più diversi strumenti; come afferma Baumann[5]: “da una parte il contenimento della irrazionalità, la sua canalizzazione e conversione (ruolo della psichiatria?), dall’altra la repressione della violenza sono due strumenti riconosciuti di mantenimento della pace sociale, dell’ omeostasi delle istituzioni e dell’inibizione o indirizzamento dell’evoluzione” della società.
Quindi, come procedere per una riabilitazione che sia funzionale al soggetto prima che all’istituzione e che favorisca il riconoscimento della propria dignità, indipendenza, peculiarità e capacità, lasciando alla persona stessa l’elaborazione di tutto ciò?
L’ ipotesi che si propone, seppure condividendo con Saraceno che riabilitazione è la coniugazione della pratica dell’ovvio e del quotidiano, é proprio quella dell’utilizzo di programmi riabilitativi che si sviluppino utilizzando quelle metafore già esistenti nel contesto della “normalità” e che pertanto non siano direttamente legati alle pratiche, ai confronti, alle necessità, alle amarezze, alle soddisfazioni e frustrazioni dei consueti e definiti metodi del sistema riabilitativo “salute mentale” con il suo conseguente vivere quotidiano in situazioni più o meno protette o parasociali.
“Il reale all’interno del quale si declina la pratica riabilitativa è costituito dall’insieme dei luoghi, dei tempi della relazione che fondano la quotidianità. I tempi che scandiscono il vivere quotidiano, gli spazi della casa, del quartiere, della città, le relazioni quotidiane e banali… l’acquisizione delle misure delle distanze fisiche e psicologiche, la conquista della consapevolezza e del diritto alla consapevolezza”[6].
La complessità della pratica dell’ovvio è data dalla molteplicità degli aspetti e delle relazioni nella quotidiana ricerca della soggettività.
(Per inciso fra tutte le relazioni del quotidiano certamente non può essere accantonata la famiglia da cui, per questo, ma non solo, l’attenzione dell’operatore deve essere allargata per lo meno ai contesti familiari – primo luogo ove viene a mancare o modificarsi la propria soggettività e contrattualità non disfunzionale.
L’importanza di interventi sincroni con la famiglia si estrinseca nella possibilità di favorire nel “mondo” di riferimento, una “visione del mondo” che consideri con maggior attenzione le abilità piuttosto che le disabilità, essendo la famiglia il primo specchio per il riconoscimento della propria identità e quindi una normale occasione di rinforzo positivo del proprio “essere”.)
Ora, sappiamo che in tutte le diverse società, anche animali, il momento ludico, sia individuale –correre, saltare andare e tornare, toccare la terra, conoscere lo spazio ed i suoi elementi, sia gruppale –partecipare, conoscersi, misurarsi relazionare con regole, ecc- rappresenta uno dei più importanti strumenti di apprendimento che si affinano e si sviluppano in infinite varianti secondo le usanze di quel preciso contesto sociale.
Il gioco quindi può essere:
“pretesto per esercizi che sviluppano le strutture periferiche di esecuzione o centrali di organizzazione, con un ruolo particolare durante la maturazione delle funzioni cognitive e motorie,
campo di esperimento e modo di conoscenza di oggetti, spazi ed i loro abitanti
fattore di socializzazione grazie al suo ruolo di riconoscimento dell’Altro, di ciò che è, di ciò che fa e di ciò che è possibile fare”[7],
ma anche (pensiamo allo sport) un necessario momento di svago, interesse, aggregazione, rilassamento e al contempo industria, pacificatore sociale, contenitore di tensioni, canalizzatore di energie…
Quindi nella coniugazione fra i concetti relativi ad una possibilità riabilitativa che valorizzi il senso della qualità della vita della persona, quelli che individuano la necessità che il momento riabilitativo non divenga di per sé stigmatizzante o connotante diversità di “valore” dell’individuo, e sfruttando uno degli strumenti classici dello sviluppo quale la funzione del gioco, si è ritenuto che il gioco del calcio come molti altri sports, ma più presente nella nostra cultura infantile, possa rispondere a questi requisiti, permettendo:
il riconoscimento di sé attraverso lo specchio dell’altro,
la valutazione critica delle proprie forze, energie, potenzialità,
l’acquisizione del proprio ruolo in un contesto sociale,
il riconoscimento delle regole sociali,
il rispetto dell’altro,
la condivisione di obiettivi, emozioni (vittorie sconfitte), risultati,
il riconoscimento dei ruoli,
l’ identificazione di un avversario e la lotta per il raggiungimento dei
propri scopi,
la consapevolezza di non essere soli,
il riconoscimento dell’appartenenza,
il superamento dello stigma.
Inoltre, le occasioni di incontro, di riacquisizione di momenti di vita lontani dalla routine del quotidiano scandito dallo stigma, il piacere del ricordo della propria spesso spensierata infanzia ed il linguaggio metaforico del gioco permettono più agevoli ed immediate evidenze per l’utente stesso e per i suoi famigliari, sia di misconosciute o scotomizzate potenzialità che di risultati, pratici e reali.
Al contempo si favorisce il superamento della ricerca di una magica guarigione – che determina spesso delusioni e pessimistiche convinzioni di ineluttabilità della malattia – per raggiungere un miglioramento della qualità della vita attraverso la verifica e condivisione di piccoli, ma significativi, obiettivi che innescano il processo di cambiamento della percezione del viversi e del sentirsi.
Similmente, stili operativi che portino al superamento di mansionari e attribuzioni favoriscono la possibilità di nuovi modi di essere operatori psichiatrici.
Giocarsi giocando sapendosi adeguare alle esigenze della squadra vuol dire anche riconoscere il paziente di sempre come un compagno al proprio fianco e vuol dire superare una distanza: affiancarsi.
Già nel 1984 a Cividale del Friuli si era avviata una squadra di calcio di alcolisti in trattamento ( tuttora esistente anche se con altri giocatori), dove il ruolo del servizio alcologico si era consumato nell’avvio del progetto, che voleva essere strumento per un messaggio alla comunità locale delle possibilità di recupero offerte da una terapia per il superamento dell’alcolismo.
Successivamente si è pensato di elaborare ed avviare un progetto terapeutico riabilitativo “Calcio” anche nel campo della salute mentale a cui hanno partecipato 25 giovani utenti di età compresa fra i 21 e 39 anni afferenti ai Centri di Salute Mentale del Dipartimento di Salute Mentale di Udine per gravi patologie di tipo psicotico, assieme a 9 operatori ( 1 medico e 8 infermieri), per dare vita ad una squadra di calcio amatoriale.
In diverse riunioni organizzative tutti assieme hanno individuato il nome della squadra, i colori sociali, le attribuzioni dei ruoli di gioco, i giorni e gli orari degli allenamenti (due alla settimana) e le strategie e gli schemi di gioco. L’obiettivo era ed è definito nella partecipazione a Tornei Nazionali di calcio a 8 che si sono svolti ad Adrano, Livorno, Udine, Trieste, Linz, Palmanova.
La costruzione condivisa del gruppo forse ha rappresentato la fase più delicata dal punto di vista progettuale, mentre più interessante è apparso il momento del gioco e dello spogliatoio; un momento in cui grazie alla connotazione sportiva sono state accettate differenze, superate inibizioni, condivisi momenti intimi come lo spogliarsi ed il vestirsi o fare la doccia, passarsi il sapone commentando le azioni delle partite.
Importanti normalità sono state vissute normalmente prima nello spogliatoio e poi nel campo. Qui l’uso fisico del corpo, la riattivazione delle performance fisiche anche con ovvi allenamenti bisettimanali, il dolore nello scontro di gioco, la corsa di gioia e l’abbraccio per il goal, la considerazione dell’altro hanno favorito la riconsiderazione della propria corporeità reale riuscendo a superare il corpo “fantastico” cosi presente nelle situazioni di psicosi.
Al di là di una netta diminuizione dell’uso di neurolettici ed ansiolitici, l’aspetto sanitario più manifesto si è rappresentato nella modificazione di atteggiamenti, pensieri e ruoli.
La nostra era ed è una squadra di calcio, e tutti hanno assunto il ruolo, gli impegni la serietà propria di ogni calciatore.
Le occasioni di trasferta di gioco hanno portato la squadra a sperimentare lunghi viaggi in treno, in auto ed in aereo e pernottamenti in alberghi rappresentando così un modo per conoscere luoghi oltre che nuove persone e sperimentare ancora altre emozioni ed entusiasmi.
Tanto che il rientro nella routinaria realtà di utenti dei servizi psichiatrici rappresenta il momento più debole del progetto. Nonostante i diversi tentativi di mantenere alto il pathos di giocatori e l’identità del gruppo con cene riunioni, revisione dei filmati delle trasferte, mantenimento degli allenamenti, ecc., si ritiene sia corretto riferire che ogni anno due-tre giocatori hanno evidenziato seri momenti di scompenso psichico. Quasi ad avvallare e sottolineare l’idea che i contesti definiscano le persone.
L’ ultimo passaggio si è definito nella costituzione di una Società Polisportiva creando i presupposti per un passaggio dall’occasione ludica ad una fase anche di possibilità di lavoro attraverso la gestione e cura degli impianti sportivi del Dipartimento di Salute Mentale cosi da creare e favorire oltre che una autonomia economica della squadra stessa anche la divisione del ricavato di tale lavoro fra gli iscritti.
Lentamente e consapevolmente gli operatori starter sono usciti dal progetto lasciando agli utenti stessi la gestione di tutte le cariche societarie o la programmazione delle attività.
Il contesto riabilitativo si è trasformato in un momento ri-aggregante che ci pare molto meno stigmatizzante non contenendo in sé la divisione di ruoli fra chi riabilita e chi è riabilitato.
Infatti il percorso descritto ha modulato revisioni e modificazioni anche negli operatori, circolarmente i cambiamenti si susseguono l’un l’altro, coinvolgendo tutti gli elementi che interreagiscono nel sistema; famiglia, calciatori, allenatori, tifosi, curiosi…si confondono e i protagonismi e le paternità, si superano i nessi causali, il sistema intero evolve, produce e (finalmente) accetta differenze…poiché
“il cambiamento e l’apprendimento del vivente si verifica solo a partire da perturbazioni del precedente stato di organizzazione e le persone appaiano sempre più come un sistema non in equilibrio, o meglio, in un equilibrato instabile permanente non-equilibrio, presupposto non più di ri/abilitazione , ma, forse, di ri/aggregazione dei soggetti”[8].
[1] Caruso S.: (1977) Medici e gerarchie in Italia in Maccacaro G. Sociologia della Medicina Milano , Feltrinelli Ed.
[2] Pisseri, P. Salsa, A. Gardella, C. (1999): Comunità naturali e comunità terapeutiche in “Comunità, Natura, Cultura…Terapia”: Conforto,C. Giusto, G. Pisseri, P. Berruti, G. Milano. Bollati Boringhieri
[3] Cooper, D. (1967): Psichiatria ed antipsichiatria Roma, Armando editore
[4] Rotelli F. (1992): La persona e la cosa in: De Bernardi A. et Al. Salute Mentale Pragmatica e complessità Trieste Centro studi e ricerche salute mentale Regione Aut. F.V.G.
[5] Baumann Z. (1992): Modernità e olocausto Il Mulino
[6][6] Saraceno, B. et Al. (1987): Studio sulla nozione di “riabilitazione” in psichiatria. Milano Centro studi e ricerche sulla devianza e l’emarginazione
Provincia di Milano
[7] Bensch, Cl. (1999): Etologia del gioco in Problemi in Psichiatria Rivista Quadrimestrale anno 8 numero 19 settembre 1999
[8] Bosio, R. (1993): Osservando gli osservatori – Appunti sulla situazione della Psichiatria dell’USL 7 Udinese in Complessità e Cambiamento Vol. II n. 2 Dic.