Barbara Bertoncin intervista Roberto Mezzina.
La cittadinanza, intesa come esercizio effettivo, concreto, dei propri diritti, sta alla base del concetto di “recovery” al cui centro c’è la persona, che è la risorsa più importante per la sua guarigione; dare autonomia non vuol dire abbandonare le persone al proprio destino né pretendere che sia lo Stato a provvedere; il problema dei farmaci.
(da UNA CITTÀ n. 205 / 2013 Agosto-Settembre)
Roberto Mezzina, psichiatra, è direttore del Centro di Salute mentale di Barcola, Trieste. Da anni si occupa, anche a livello internazionale, di organizzazione dei servizi, pratiche innovative, ricerca e formazione. Ha contribuito a fondare, con John Jenkins, la Rete Internazionale delle esperienze-guida in salute mentale comunitaria.
Il concetto di “recovery” è fortemente legato a quello di cittadinanza. Può spiegarci?
L’attenzione per l’autonomia è sempre stato un “vizio” dell’importazione triestina, nel senso che, avendo questa tradizione di una salute mentale in qualche modo aperta alla comunità e di una psichiatria sociale, siamo fortemente interessati a dare valore a un certo tipo di percorso, cioè a quello in cui le persone vengono sostenute dai servizi (in generale, non solo dal servizio di salute mentale) in un percorso di riacquisizione dei diritti di cittadinanza, ma soprattutto di esercizio di questi diritti.
Ciò che mi ha stupito è che questo si è rivelato un aspetto fondamentale anche in contesti diversi dal nostro. L’anno scorso sono stato a un convegno in Australia il cui titolo era proprio “Recovery e cittadinanza”, quindi questo tema è sentito anche in contesti dove il concetto di cittadinanza non è quello europeo, che fa riferimento a un welfare state, a uno stato sociale dove le persone hanno dei diritti esigibili: la casa, il lavoro, ecc. Per noi, i diritti di cittadinanza sono anche i diritti sociali, mentre invece nel mondo anglosassone la cittadinanza è qualcosa di strettamente collegato all’uguaglianza, quindi a una nozione più di base.
Nei paesi nordici, Svezia, Norvegia, ma anche negli Stati Uniti, seppur in una situazione diversa, la recovery è una nozione legata a una situazione di benessere o di relativo benessere molto individuale, cioè la persona si recupera dentro una dimensione privata, senza considerazione per quel capitale sociale che sono le relazioni.
In Italia, invece, le persone intervistate ritengono molto importanti i legami sociali, lo stare in rapporto con situazioni collettive, con la rete di servizi. Nel nostro paese, così come in Europa, questa è una nozione centrale. Anche in Inghilterra c’è stata, per anni, una “Unit” trasversale a tutti i ministeri, che, nel lottare contro l’esclusione sociale in salute mentale, aveva individuato due obiettivi centrali: uno era l’inserimento lavorativo e l’altro era la partecipazione.
Per noi, la questione della partecipazione ai servizi è un nodo cruciale: i servizi sono un pezzo di comunità e noi cerchiamo costantemente di renderli il più possibile umani, attraversabili, dei luoghi dove le persone non solo non vengano respinte, ma possano trovare accoglienza. Accoglienza è un po’ paternalistico, ma, insomma, voglio dire che i servizi dovrebbero essere vissuti un po’ come una casa, non semplicemente il posto dove sta il dottor Mezzina con il suo ufficio. Questo ci intriga ancora oggi: come fare a correggere una rotta disumanizzante, tecnicizzante? Non è facile perché nessuno è esente da queste tentazioni e neanche questo è il paradiso.
Promuovere cittadinanza e autonomia non vuol dire abbandonare le persone a se stesse.
Prima della legge 180 anche in Italia c’era un gruppo di antipsichiatria che sosteneva che bisognava abolire completamente ogni legislazione che riguardava la psichiatria. E quindi aprire i manicomi, punto e basta.
Dopodiché, che le persone avessero il servizio o no non era affar loro. Ancora oggi, in America, ci sono gruppi di utenti organizzati con rivendicazioni analoghe: noi non vogliamo sapere niente dei servizi, che andassero al diavolo, noi vogliamo difendere il nostro diritto a star male, anche a morire per strada. Ci sono anche queste posizioni. Io, chiaramente, non le sostengo.
Già da qui si capisce che questa questione della cittadinanza, che sembra quasi ovvia, non è affatto scontata.
Intanto di mezzo c’è la psichiatria: nonostante la chiusura dei manicomi sia stata realizzata ormai da più di dieci anni, il concetto di cittadino con disturbi di salute mentale stenta a essere accolto, bisogna ancora fare un grande lavoro. È un campo che va studiato e presidiato perché le persone con il Tso possono ancora finire legate in un Servizio di diagnosi e cura. Oppure possono rimanere abbandonate per strada perché alcuni servizi intervengono solo se le persone disturbano, ma se stanno sotto un ponte a morir di fame e nella sporcizia non è affar loro.
Certo, il confine è molto difficile, ma oggi la sfida è presidiare proprio questa fascia di persone più a rischio, cioè le persone che non accettano i servizi, li rifiutano, anche perché, spesso, i servizi fanno schifo. è difficile accettare un servizio psichiatrico che ti dà solo dei farmaci, che ti fa le analisi e ti rimanda alla tua vita, che ti ricovera se stai molto male, magari legandoti, e poi basta. Infatti, più che di cittadinanza, bisognerebbe più correttamente parlare di cittadinanza praticata. Come ha scritto molti anni fa Ota De Leonardis, la cittadinanza, più che un concetto, è una pratica, l’esercizio di una pratica. Per me è chiarificatore il concetto di “lived citizenship”, cioè di cittadinanza vissuta. In che maniera le persone percepiscono questa cittadinanza? Cosa vuol dire sentirsi cittadini? C’è chi passa attraverso un centro diurno, un club per pazienti psichiatrici e poi magari diventa un rappresentante dei diritti dei pazienti entrando in organizzazioni nazionali o internazionali. Altri possono realizzarsi in arene non psichiatriche. C’è anche chi lotta perché la cittadinanza sia il riconoscimento di diritti, diciamo, settoriali. In tutto il mondo si parla di “people with psychiatric disabilities”. È il concetto di disabilità, che a noi, tutto sommato, non piace molto, perché sembra in qualche modo ghettizzante e almeno un po’ invalidante; in realtà, per loro è una bandiera: “Noi vogliamo che la società riconosca che c’è una disabilità di questo tipo, vogliamo che nei luoghi di lavoro siano previsti degli adeguamenti, eccetera, eccetera. Ci interessa più questo del lavoro terapeutico e quindi del diritto alla cura”. Questo è un altro tema della cittadinanza. Ci sono intere organizzazioni, per esempio la Enusp (European Network of Users and Survivors of Psychiatry) che lottano per questo concetto della disabilità riconosciuta. Che vuol dire che lo Stato deve provvedere. Un concetto a due facce, anche pericoloso, perché tende a passivizzare le persone.
In alcuni paesi la richiesta è di essere garantiti economicamente, ma in una condizione di disabilità assistita. A noi non piace. La nostra cittadinanza diventa recovery se le persone partecipano veramente, sono attori della loro vita, rientrano in gioco, sono attive.
Cosa serve per un percorso di recovery?
È difficile dirlo. Dalle ricerche emerge un dato, cioè che serve tutto e niente: servono le relazioni, serve l’autoconsapevolezza, serve il lavoro su di sé, servono i supporti sociali, servono i soldi, serve la casa, serve il lavoro. E servono i servizi purché di un certo tipo. Lo stato assistenziale fornisce i supporti, gli aiuti. Che questi aiuti siano appropriati o meno, utili o meno di fatto non interessa. La scelta e quindi la singolarità, la soggettività passano in secondo piano perché si lavora su grandi numeri, su politiche. Invece, quello che interessa alle persone nei percorsi di recovery è la “mia” vita. Tant’è che cose apparentemente banali possono rivelarsi straordinariamente importanti diventando degli elementi chiave della recovery,
Una nostra collega, Marit Borg, norvegese, ha scritto tantissimo sul ruolo imprevisto delle piccole cose della quotidianità. Per qualcuno, ad esempio, la recovery prende la forma di un gattino che intanto distrae dalle voci, ma poi costringe a uscire per comprargli da mangiare e quindi a relazionarsi con altre persone. Insomma, cose molto semplici.
Allora, quello che conta è non tanto ciò che serve, ma come ti poni le domande. Che domande poni alle persone? Che domande fai emergere dalle persone? E che domande le persone si possono porre in percorsi di recovery?
Nel libro raccontate di questo paziente che lamenta: “Ma il medico non ha mai chiesto a me cosa faccio io per stare meglio”.
È paradossale: si mettono in moto dei sistemi complessi, anche costosi e però la soggettività della persona viene coinvolta fino a un certo punto. Questo è un aspetto su cui occorre lavorare. Ora poi “recovery” è diventata anche una parola di moda, infatti si sono messi a scrivere i manualetti per trasformare i servizi nella prospettiva della recovery. Va tutto bene purché sia chiaro che deve cambiare anche la psichiatria. Se la psichiatria resta quella cosa lì che ti dà la diagnosi, i farmaci e che, in qualche modo, ti definisce, ti esclude, ti chiude, anziché aprire, delle possibilità di vita, beh, puoi dare tutti i suggerimenti che vuoi, puoi fare in modo che gli operatori siano sorridenti, accoglienti, ma poi è un sorriso che diventa un ghigno.
La cosa più difficile è far sì che i servizi diventino dei luoghi aperti. Io giro per il mondo e la cosa più incredibile per la gente è scoprire che a Trieste tutto funziona a porte completamente aperte. Salvo casi eccezionali, qui nel centro non c’è un posto che abbia le porte chiuse… Se pensiamo che anche certi reparti ospedalieri e i ricoveri per gli anziani sono luoghi chiusi…
In giro per l’Italia, invece, com’è?
In giro per l’Italia la psichiatria è fatta di luoghi di ricovero chiusi. Oppure ci sono ambiti restrittivamente ambulatoriali che vedono solo quello che il modello medico consente loro di vedere: una persona da cui vanno estratti dei sintomi per arrivare a una diagnosi. Non vedono dietro.
In giro per il mondo, addirittura, ci sono servizi a cui le persone neanche accedono. Ci sono dei posti dove, casomai, si telefona, c’è qualcuno che prende nota e, se ti va bene, ti mandano qualcuno a casa. Non ci sono dei posti attraversati e popolati, vissuti dalle persone. Questa cosa non c’è da nessuna parte. Da questo punto di vista Trieste è ancora abbastanza unica. Mediamente i posti sono definiti per diagnosi: il posto degli acuti è l’ospedale, il posto dei cronici è il centro diurno, il posto di quelli in mezzo è il centro di salute mentale dove si viene a parlare col dottore. Fine. Non c’è il concetto di un sistema di servizi che alla fine ti deve permettere di prendere gli aiuti di cui hai bisogno.
Bisogna avere le antenne dritte per poter cogliere quello che le persone chiedono e costruire dei percorsi individualizzati.
Che cos’è il “budget di salute individuale”?
Quando una persona, oltre ai sintomi, alla sofferenza di quel momento (che può essere alleviata da colloqui, farmaci) ha difficoltà nell’abitare, magari non ha più relazioni, quindi sta entrando in un’area di grossa sofferenza sociale, il budget di salute è un di più che viene dato per realizzare un percorso individuale specifico per quella persona. Può comprendere, per esempio, una permanenza in una piccola comunità terapeutica, oppure un inserimento lavorativo più o meno sostenuto o, ancora, un “allenamento” a come si usano gli spazi di vita e di socialità; tutto questo è realizzato con il concorso di associazioni e cooperative sociali che aiutano il servizio pubblico. Anche lì, però, il livello di scelta dell’utente, del soggetto, è limitato. I soldi infatti non vengono dati a lui, ma utilizzati per realizzare quest’offerta di servizi e non sempre la persona è consapevole al 100% di questo programma. Questi sono un po’ i limiti del sistema.
Lo stigma del centro di salute mentale resta. Dal momento in cui uno inizia a star male a quando si rivolge a un centro possono passare anche anni.
È così. Noi, adesso, stiamo lavorando anche con i giovani affinché il Csm diventi un posto, tra i tanti, in cui possono essere accompagnati in percorsi di aiuto, di supporto. Neanche a noi piace il centro di salute mentale fatto così. L’ambizione sarebbe di creare luoghi dove i cittadini si possano incontrare, che abbiano problemi o no, che siano familiari o vicini o gente della parrocchia… Il rischio, anche per noi, è di sedersi sulla routine del lavoro clinico, cioè colloqui, farmaci, invece di fare un lavoro di comunità, che sembra un qualcosa in più e invece è vitale.
Ma quante persone segue il servizio?
Un centro di salute mentale come questo, in un’area di 65.000 abitanti, segue oltre mille persone all’anno; “segue” a vario titolo, si va dal colloquio ogni tanto all’incontro quotidiano.
Ci sono persone che vengono tutti i giorni?
Assolutamente! Ci sono persone che vengono qui tutti i giorni, anche da venti o trent’anni. Alcuni vengono semplicemente perché non hanno più una famiglia, vengono perché è un luogo dove incontrano altre persone. E da dove noi, costantemente, cerchiamo di spostarli. Non di cacciarli, ma di spostarli verso luoghi più avanzati per così dire. Questo è un luogo di base, dove si viene per le medicine, dove parli, mangi e fai qualcosa. Noi allora li invitiamo ad andare, ad esempio, al centro diurno di Aurisina per poi, magari, iniziare a frequentare un’associazione o una palestra, insomma, appropriarsi anche di altri luoghi della città. Laddove i servizi sono, di per sé, interfacciati con la comunità, è più facile. E questa è la grande risorsa di Trieste. Se invece i servizi sono separati, anche se magari lavorano bene, non sono servizi di comunità. Qual è il problema? Che una volta che quella persona sta meglio la devono mandare da un’altra parte. Questo, in Inghilterra, è un caso classico: ti vengono a casa anche tre volte al giorno, ti aiutano, ma appena finisce questa cosa ti dicono: “Ciao”. Casomai, ti rimandano al community center, al centro sociale di quartiere, dove ci sono sicuramente delle attività, dei corsi, ma niente che abbia a che fare con la salute mentale. Noi abbiamo cercato di costruire una specie di ibrido, di contaminazione continua della salute mentale dentro la città e viceversa e questa credo sia la cosa più importante dell’esperienza italiana e di Trieste in particolare.
Recovery non è proprio una guarigione, come possiamo definirla?
Beh, può essere anche una vera guarigione.
Izabel e Silva si chiedevano se ci sono cartelle cliniche in cui c’è scritto “guarito”…
Guardi, io ho avuto qualche esperienza traumatica da questo punto di vista. Avevo scritto che una persona era completamente guarita e dopo due, tre mesi ha avuto una crisi per cui la mamma era un po’ arrabbiata con me.
Venendo alla domanda, io credo che la recovery cominci quando cambia il rapporto tra la persona e il suo problema. Quando la persona diventa più forte, più attiva e in qualche modo riesce a non farsi dominare dal malessere, dal disagio, dal sintomo, quando sa chiedere aiuto prima o è in grado, con i suoi strumenti, di gestire, di circoscrivere il problema, invece di massimizzare la sua vita; è questa la recovery, per me.
In questo senso è ambiguo dire recovery uguale guarigione; va anche bene dirlo, perché è una strizzata d’occhio, però noi dobbiamo dare speranza di recovery anche a quelli che stanno malissimo, sennò viene fuori un mondo che si divide in due: quelli che guariscono e quelli che non guariscono. L’idea è che la forbice del benessere, per quanto ridotto, deve, pian pianino, allargarsi e spingere ai margini la malattia. Io dico anche che questo è un diritto. Il diritto non è alla guarigione, ma a riprendere in mano la propria vita. Perché non possiamo mai dimenticare che è la persona stessa la risorsa più importante per la sua guarigione. Poi ci sta il servizio buono e quello cattivo, ci sta l’amico, la mamma, le reti sociali, i soldi, però prima c’è la persona.
Il regalo più bello che si può fare, che le persone si possono fare, che la psichiatria -un po’ emendata- può cercare di fare è di riconoscere le grandi potenzialità di chi soffre di malattia mentale. Questo non sta da nessuna parte. Cioè, la psichiatria classica dice che c’è una malattia che ha un decorso, che finisce. Se è più avanzata sa che questo decorso è influenzato da fattori sociali. Ma in realtà la leva più importante su cui lavorare è la forza della soggettività.
Gli operatori sono entrati in quest’ottica?
Diciamo che c’è una specie di consapevolezza inconsapevole. Lo sanno, anche se gli operatori più vecchi fanno fatica. D’altra parte loro sono stati addestrati a gestire la malattia, non a sostenere la persona affinché gestisca la malattia.
Oltretutto l’operatore psichiatrico ha un ruolo ambiguo, contraddittorio: da un lato deve accontentare la società sul piano della tranquillità, quindi evitare comportamenti disturbanti, devianti, dall’altro però dovrebbe sostenere le persone che stanno male. In questa situazione a volte commette degli errori. Gli operatori temono soprattutto di perdere il controllo, mentre è chiaro che, tanto più questo processo si decentralizza, facendo emergere le risorse del paziente stesso o del familiare o di altri soggetti, più il percorso terapeutico diventa efficace.
In tutto questo i farmaci che ruolo hanno?
In tutto questo, i farmaci sono, a mio avviso, importanti; sarebbe stupido e ideologico negarlo. Però i farmaci sono una delle risposte. Importante a seconda delle situazioni: per alcuni importante, per altri meno. Adesso è uscito un libro fondamentale, che spero leggano soprattutto gli psichiatri: “Indagine su un’epidemia” di Robert Whitaker, appena tradotto in italiano. Whitaker è un giornalista scientifico americano che ha scritto due libri importanti; il primo è “Mad in America”. Quest’ultimo è un libro straordinario perché fa un’analisi spietata dell’era degli psicofarmaci, che ci è stata raccontata come una grande favola: “Grazie agli psicofarmaci, si sono potute aprire le porte dei manicomi, le persone hanno potuto uscire, è stata possibile la grande rivoluzione”. Palla assoluta! Fatto assolutamente non storico, perché le rivoluzioni in psichiatria ci sono state anche nell’era precedente agli psicofarmaci, quando non c’era nulla; esprimenti di porte aperte, di “non-restraint” ci sono stati anche nell’Ottocento, con John Conolly, William Tuke e altri. Gli psicofarmaci hanno senz’altro alleviato la sofferenza temporanea delle persone, ma hanno anche creato un mercato che tende a espandersi, che cerca sempre nuovi clienti (ora anche i bambini) e che lega le persone ai farmaci per tutta la vita. Il farmaco va bene, intendiamoci, ma è uno strumento della negoziazione. Le persone, se lo ritengono utile, ne fanno un uso migliore; se sono costrette, appena potranno lo eviteranno. Però, ecco, non sono la panacea. Whitaker, dati alla mano, infatti chiede: “Come mai, se questi farmaci sono così utili ed efficaci, contestualmente all’aumento del consumo di psicofarmaci, nel mondo c’è stato un aumento delle pensioni di disabilità per i malati mentali?”. È un bell’interrogativo.
(a cura di Barbara Bertoncin)