Ci sono famiglie che si sentono isolate e trascurate, sole alle prese con problemi angosciosi, generati dalla presenza di un congiunto – spesso un figlio – sofferente per un disturbo psichico. E che talvolta incappa nelle maglie della giustizia, con conseguenze ancora più pesanti. Proprio ieri abbiamo parlato di un ragazzo che è finito nel carcere sardo di Uta per un episodio psicotico. Il gip ha chiesto chiaramente la scarcerazione e il trasferimento in comunità. Ma ci sono ostacoli e ancora si trova illegalmente dentro. La garante regionale Irene Testa ha lanciato l’allarme. Ma tante sono le famiglie lasciate da sole a causa dell’incompiutezza della riforma Basaglia che ha portato alla chiusura dei manicomi.
Lo stato di debolezza dei Dipartimenti di Salute Mentale, che devono assicurare il diritto alla salute mentale e alle cure, espone sempre più le persone con sofferenza e i loro familiari a un’inaccettabile condizione di abbandono. Ad oggi, la mancanza di risorse economiche rappresenta il principale ostacolo per garantire un’efficace assistenza psichiatrica. Sebbene fosse stato stabilito che ogni regione destinasse il 5% della spesa sanitaria regionale alle cure psichiatriche, questa soglia viene rispettata solo in poche realtà, come la provincia di Bolzano e l’Emilia Romagna.
Le disparità territoriali si riflettono anche nell’organizzazione dei servizi, con poche regioni in grado di offrire un’assistenza integrata che coinvolga servizi per le dipendenze e la neuropsichiatria infantile. Inoltre, la carenza di professionisti, come psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica e assistenti sociali, limita spesso la possibilità di lavorare in team multidisciplinari con gli psichiatri, compromettendo la qualità delle cure. Queste mancanze si ripercuotono su oltre 837 mila persone, secondo le stime del ministero della Salute, a cui si aggiungono coloro che non hanno ancora ricevuto una diagnosi, i cosiddetti “pazienti sommersi”.
Dal Dipartimento di Salute Mentale al carcere – Una soluzione esiste e risiede nel modello di psichiatria di comunità, che prevede un coordinamento unico per gestire i servizi nell’ambito del progetto riabilitativo di ogni paziente. Questo approccio integra ambulatori, strutture residenziali e semi- residenziali, nonché reparti ospedalieri per le situazioni di crisi, con l’obiettivo di mantenere il paziente nel proprio contesto sociale, preservando le sue relazioni affettive e lavorative.
Tuttavia, senza un intervento tempestivo e adeguato, chi soffre di disturbi psichiatrici rischia di perdere tutto ciò che ha costruito negli anni precedenti all’insorgenza della malattia. Laddove questo sistema è carente, le conseguenze dipendono spesso dalle risorse individuali e familiari, con alcuni pazienti che, non ricevendo le cure necessarie, finiscono per vivere in condizioni di trascuratezza, isolamento o, nei casi più gravi, cadere in situazioni di emarginazione sociale, come la vita in strada e il carcere. Ed è quest’ultimo che diventa la “soluzione” più facile, ma drammatica.
Tanti sono i casi di reclusi in attesa di essere ospitati presso le comunità. E ritorniamo di nuovo in Sardegna, dove, lo scorso aprile, era stata accesa l’attenzione sulle condizioni dei detenuti psichiatrici e tossicodipendenti. “I malati psichiatrici e i tossicodipendenti sono troppi e non dovrebbero stare in carcere, bensì in strutture alternative che in Sardegna non ci sono”, ha sottolineato la garante regionale Irene Testa durante un flash mob innanzi al tribunale di Cagliari.
La testimonianza è dura e ha descritto un quadro agghiacciante: “Nella mia periodica visita nel carcere di Uta nei giorni scorsi ho trovato l’inferno: un detenuto urinava in cella e beveva la sua stessa urina, riempiva le pareti di escrementi, si affettava le braccia. Un altro ancora viene tenuto in isolamento da mesi ma è stato sottoposto a Tso, vista la sua condizione di disagio psichiatrico. Addirittura, in alcune sezioni si fa fatica ad entrare per via dello stato di agitazione di alcuni detenuti”.
Testa ha continuato a denunciare le condizioni disumane in cui versano molti reclusi: “Persone malate che, come più volte ho denunciato, non dovrebbero stare lì. Ogni giorno assistiamo alle denunce della polizia penitenziaria, che si ritrova a spegnere incendi e salvare vite dai numerosissimi tentativi di suicidio”. I numeri sono allarmanti: “Lo scorso anno, solo a Uta, i casi sono stati 46, per un totale di 96 in tutta l’Isola. Ho parlato con tre ragazzi che sono stati salvati in extremis, tutti avevano un passato di tossicodipendenza alle spalle”. Una realtà, quella descritta, che evidenzia il fallimento del sistema carcerario nel trattare casi così delicati: “Ragazzi fragili che non possono essere trattati all’interno di una cella chiusa. Ragazzi incompatibili col regime carcerario”.