di Antonio Amato
Alberto Varone è un gran lavoratore. Ha 5 figli, per mantenere la sua famiglia si alza ogni notte alle 3, con la Kadett rossa da Sessa Aurunca arriva a San Nicola la Strada, va a prendere i giornali, poi li distribuisce in una trentina di edicole tra Roccamonfina e le frazioni di Sessa. Concluso il giro, verso le otto del mattino, raggiunge la moglie al negozio di mobili che gestiscono. Alberto Varone è un uomo onesto e fiero, non si è mai piegato ai ricatti dei camorristi, quelli del clan Esposito che dalla fine degli anni Ottanta domina la zona. E il suo no glielo grida in faccia. Un affronto che il capoclan Mario Esposito non gli perdona. Ne decreta la morte. Il 24 luglio del 1991, Alberto Varone come ogni notte è sulla via Appia, guida la sua auto piena di giornali. Lo raggiunge un commando di fuoco, gli sbarrano la strada, gli sparano con un fucile a canne mozze, poi gli sparano in faccia. Alberto è tosto, non muore subito. Finirà qualche ora più tardi su un letto di ospedale, ma prima riuscirà a far capire alla moglie chi è stato a ucciderlo. Il figlio di Alberto, Giancarlo, ha la fierezza del padre. Decide, con l´aiuto degli amici, di riprenderne il lavoro, alzarsi di notte, distribuire i giornali. Non mancano le minacce, ritornano le ritorsioni del clan. Tuttavia la madre, con il conforto del vescovo Nogaro, supera le paure per i figli, decide di denunciare gli assassini del marito. Le minacce si fanno più pressanti. La famiglia Varone entra nel programma di protezione, sono portati tutti via. Da allora, come purtroppo è inevitabile, nessuno sa più nulla di loro.
Poco a poco, tutti sembrano dimenticare questa storia, nessuno ne parla più per anni. Qualcuno, però, tiene duro, continua a ricordare e fa di quel ricordo un punto di forza della sua lotta, strenua, dura, per la legalità. È Simmaco Perillo, con la sua cooperativa “Al di là dei sogni”. Ci lavorano persone che vivono disagio, per lo più provenienti dalla salute mentale. Decine di uomini e donne che erano stati legati per anni ai letti di contenzione, che erano stati definiti socialmente pericolosi, oggi sono soci della cooperativa, lavorano lì, perfettamente integrati nella loro comunità. Lo fanno grazie a uno strumento, i budget di salute, che permette di superare la logica delle Rsa, produce un enorme risparmio per la sanità, restituisce queste persone al diritto di cittadinanza.
Questi ragazzi hanno in gestione un bene confiscato ad Antonio Moccia. Decidono di intitolarlo ad Alberto Varone. Coltivano i terreni del bene confiscato. Producono centinaia di vasetti di melanzane che mettono in vendita e presentano nel luglio di quest´anno in una grande manifestazione pubblica nell´aula consiliare del comune di Sessa. Centinaia di persone, alla fine, scendono in piazza, e dopo 19 anni viene gridato il nome di Alberto Varone. Una comunità intera restituisce a una vittima innocente della camorra la sua dignità, grida un no secco in faccia ai clan. Ma oggi, l´Ufficio sociosanitario del distretto 14 dell´Asl di Caserta, che si oppone ai budget di salute, interrompe da un giorno all´altro i progetti riabilitativi terapeutici individuali. Con procedure tutt´altro che trasparenti, senza aver mai visitato negli ultimi due anni queste persone, senza sapere se gli obiettivi sociosanitari sono stati raggiunti, senza sapere che molte di queste persone non hanno più nemmeno una casa o una famiglia dove tornare. Per loro si spalancherebbero a breve, nuovamente, le porte delle Rsa. E si produce l´effetto di far chiudere quel bene confiscato. Così, per interessi oscuri, un pezzo dello Stato decide di uccidere di nuovo Alberto Varone.
L´autore è presidente della commissione regionale sui beni confiscati
(da La Repubblica del 27.10.2010)