[Illustration by Tamara Shopsin]
I centri di salute mentale nel discorso del premier
Di Maria Novella De Luca
[articolo uscito su Repubblica il 19 febbraio 2021]
C’erano due parole fondamentali nel discorso pronunciato al Senato dal nuovo premier Mario Draghi, entrambe iniziano con la C e sono sfuggite ai più. Citando la sanità territoriale e la medicina di prossimità, Draghi ha indicato, tra i servizi da rilanciare, anche i consultori e i centri di salute mentale. E colpisce (favorevolmente) che un premier appena incaricato sia stato così preciso nel segnalare due reti sanitarie tra le più importanti, ma anche tra le più trascurate e ignorate della storia italiana degli ultimi decenni. Con il coraggio di parlare della categoria più scomoda: i malati di mente. i pazienti psichiatrici, i “matti” insomma, novecentomila persone che sembrano scomparse dall’agenda di tutti i ministri della Sanità.
Nascono negli anni Settanta i consultori e i centri di salute mentali, figli di un’idea democratica della medicina che cerca di avvicinarsi alla persona, realizzando, anche, di fatto, una rivoluzione culturale. I consultori, istituiti nel 1975, sono infatti luoghi di tutela gratuita della maternità, ma anche del primo approccio di massa alla contraccezione e poi di garanzia della legge 194 sull’aborto. E così i centri di salute mentale, che diventano la realizzazione territoriale della cura psichiatrica fuori dai manicomi così come l’aveva pensata Franco Basaglia. Curare la malattia mentale non isolando il paziente dal mondo dei “normali”, internandolo con i suoi simili, ma curarlo nella società, con un servizio psichiatrico “di prossimità”. Chiusi (lentamente) i manicomi con una rivoluzione epocale e incompiuta, la legge 180 istituisce i Dsm, i Dipartimenti di salute mentale, che comprendono i centri sul territorio, più piccolissimi reparti ospedalieri per i casi più acuti, e le comunità dove sperimentare anche una vita autonoma. UN’idea straordinaria e umana, peccato, come sappiamo, che non sia mai stata pienamente concretizzata, se non in alcuni fazzoletti d’Italia, Gorizia dove tutto cominciò, Trieste, Trento, Reggio Emilia e poco altro. Se i consultori sono infatti in un certo senso sopravvissuti, la “psichiatria territoriale” è invece precipitata in una crisi profonda. E questo nonostante la professionalità (diciamo anche abnegazione) di chi ancora in quei servizi lavora e crede: psichiatri, psicologi, educatori, costretti dai tagli a turni massacranti e sottoposti al serio rischio di burnout.
La rete dei 3.800 centri di salute mentale, però, come denunciano da anni le associazioni di familiari dei pazienti, è ormai una “rete bucata”. Servizi aperti poche ore al giorno, cure erogate senza continuità, frequente ricorso ai trattamenti sanitari obbligatori, spesso invocati da famiglie stremate dalla gestione di un familiare con disabilità mentale. L’abuso di farmaci, l’abbandono delle psicoterapie, nessun investimento sul reinserimento dei pazienti, sempre più confinati in comunità che sono parcheggi per “diversi”: matti, clochard, drop-out. E mentre contenzione ed elettroshock sono di nuovo prassi in molti ospedali, avere una patologia psichiatrica, o essere familiari di un “matto” è tornato ad esser fatto privato: chi ha soldi si cura, chi non ne ha si ritrova marginale e solo insieme a coloro che lo amano. Il sogno dimezzato della legge 180, i cui centri di salute mentale sarebbero dovuti essere (e in alcuni casi lo sono stati) il passaggio da una “psichiatria di contenimento” a una psichiatria di cura riabilitazione. Per questo le parole di Draghi sul rilancio dei servizi territoriali sono fondamentali: perché i pazienti psichiatrici tornino a essere considerati persone e non più soltanto malati.