di Elena Cerkvenic
Io non sono contraria ai farmaci. E’ sin dai primi anni Novanta che, per stare bene, devo prendere un neurolettico che grazie al cielo soffoca i miei sintomi e mi garantisce una vita normale, piena, a trecentosessanta gradi. Ho un disturbo bipolare e/o schizoaffettivo e mi fa piacere ricordare una delle ultime volte, quando sono stata male. Erano le 10.30-11.00 di mattina e avevo in mente di recarmi in una biblioteca della mia città, situata nel centro storico, a restituire un libro che avevo preso in prestito. Mi preparai, uscii da casa e camminando d’improvviso mi è venuto in mente un pensiero che mi suggeriva di andare a comprare nel vicino supermercato dei pomodori per preparare un’insalata. La mia prima intenzione di andare in biblioteca è stata sopraffatta dal mio improvviso bisogno di andare al supermercato a comprare i pomodori. Però il pensiero di andare in biblioteca faceva la sua battaglia nella mia mente per la supremazia, contrapponendosi in una lotta sfrenata al pensiero, per cui venivo indirizzata ad andare al supermercato a comprare pomodori. In questa situazione di conflitto di pensieri che si è creata stavo malissimo. Era come se all’improvviso avessi dovuto perdere il controllo dei movimenti del mio corpo e mi trovassi in una situazione di pericolo per la mia persona. Osservavo me stessa. Avevo difficoltà nel prendere una decisione sul momento giusto per attraversare la strada, dove avrei dovuto camminare per non trovarmi in una situazione di pericolo. Ad esempio vicino al Canal Grande, sarei potuta cadere per questa “insicurezza” nell’acqua profonda del canale navigabile che si trova nel cuore del Borgo Teresiano della mia città e fare una tragica fine. Osservavo me stessa. Avevo l’impressione che si svolgesse tutto in pochi istanti che però sembravano non finire mai. Sembrava un tempo, quello di questo mio malessere, come se dovesse non terminare mai. Mi rimase un lume di ratio per cui mi resi conto del pericolo in cui mi potevo trovare e chiamai al telefono il Centro di Salute Mentale Maddalena . Mi rispose un’operatrice. Le dissi che mi sentivo male, le dissi due frasi e lei mi disse: “Elena, prenda un taxi e venga al Centro, la aspettiamo!!” Dopo queste parole rassicuranti feci proprio così: presi un taxi e andai al Centro. Entrata al Centro venni accolta dall’operatrice in accoglienza. Dissi all’operatrice la mia preoccupazione, diedi sfogo al mio dolore misto alla paura che qualcosa di tragico potesse accadere. L’operatrice mi ascoltava con attenzione e poi mi rassicurò dicendomi: “Elena, ho capito. Ora la prego, aspetti in sala, vediamo chi può ascoltarla. Stia tranquilla, qualcuno verrà presto da lei.”
Stavo lì in sala tranquilla. Aspettavo. Mi sedetti come mi suggerì di fare l’operatrice, nella sala d’aspetto, su una sedia di colore rosso, sistemata vicino a due bellissime piante rigogliose ed enormi. Ero sollevata. Percepivo l’ambiente accogliente, mi infondeva fiducia, percepivo la gentilezza nei modi di fare e nelle parole degli operatori. Da lì chiamai mio marito Vittorio. Gli dissi: “Vittorio, sono stata male, sono venuta al Centro. Ora sono qui. Sto Aspettando”. Mio marito ha ascoltato. L’ho avvisato dov’ero. Non sarei stata in grado di spiegargli cosa mi stava accadendo. Stavo aspettando con fiducia qualcuno con cui avrei potuto parlare più a lungo, esprimere il mio malessere. Dopo un quarto d’ora, venti minuti circa venne qualcuno da me, mi salutò e mi disse gentilmente: “Signora Elena, venga..” invitandomi a seguirlo. Entrai nello studio. Venni fatta accomodare sulla sedia di fronte a lui. Era lo psichiatra, lo specialista, non era il mio psichiatra di riferimento, era un altro, che non conosceva bene la mia storia, né io conoscevo lui. Con la sua persona trasmetteva in me speranza, gioia, rassicurazione, serenità. E poi un aspetto importantissimo: percepisco che credeva in me, nella mia volontà, nel mio impegno a star bene. Il colloquio con lo psichiatra era piacevole. Gli raccontai quello che ricordavo dei sintomi che in strada mi avevano aggredito, mi sembravano già lontani quando stavo facendo il colloquio con lo psichiatra, come se dinanzi alle porte del Csm fossero scomparsi quasi del tutto dileguandosi.
Ero infinitamente grata allo psichiatra con cui ebbi il colloquio, che constatava che ero “accelerata” e mi consigliò di prendere subito venti gocce di Haldol e aspettare un quarto d’ora, dopo avremmo proseguito il colloquio. Grazie al neurolettico stavo meglio. Dopo il quarto d’ora di attesa proseguii la chiacchierata con lo psichiatra. Mi sconsigliò di leggere cose impegnative e di fare attività impegnative, mi raccomandò di riposare, di dedicarmi al riposo. Fui molto contenta, direi felice del colloquio e rafforzai la mia consapevolezza che grazie al neurolettico che prendo posso fare una vita normale, a casa mia, con la mia famiglia, e andare fuori casa, a dedicarmi alle attività più differenti, al lavoro volontario con l’associazione articolo 32 cui mi impegno con passione e creatività.
Il farmaco riduce i miei sintomi, mai la mia persona, che si impegna ad essere creativa, ogni giorno, combatte e vive pienamente la normalità quotidiana.