Nonostante il titolo, “Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore 2011, pagg. 243, euro 19) non è un libro sul carcere. Chi lo dice è Luigi Manconi, sociologo, già senatore, sottosegretario di Stato alla Giustizia e garante dei diritti delle persone private della libertà, che con Valentina Calderone, economista ricercatrice, lo ha scritto.
«Un pugno nello stomaco», si legge nella Prefazione di Gustavo Zagrebelsky, assestato a suon di storie, racconti di vita e di morte, di donne e di uomini vivi, entrati in quel braccio di ferro «tra chi dispone della forza e chi ne è a disposizione» – per uscirne morti. Non importa se colpevoli o innocenti; se dalla camera di sicurezza di un carcere, dalla finestra di una questura, dal cortile di un ospedale psichiatrico giudiziario o dal parco sotto casa. Vite umane, spesso giovani, giovanissime, di cui poco o niente sappiamo; riportarle alla luce, è ciò che vuole e dichiara, fin dal sottotitolo “Stefano Cucchi e gli altri”, il libro. Il cui tema, avvisa nelle pagine introduttive l’ex presidente della Corte Costituzionale, è altamente politico.
«Politico perché riguarda il fondamento stesso della politica», ci spiega Manconi, «ossia il rapporto tra il cittadino e lo Stato, quella questione fondamentale della tutela dei diritti, delle garanzie, delle prerogative di tutti i cittadini, qualunque sia la loro condizione, anche di essere privati della libertà. Lo Stato trova la sua legittimazione morale e giuridica nel patto che stringe con i cittadini. Sta a dire che può chiedere al cittadino lealtà e ubbidienza fino a quando ne garantisce l’incolumità. E che diviene ancora più impegnativa e vincolante quando il cittadino si trova nelle mani dello Stato: in quel momento la sua vita è sacra. Scriviamo il libro perché la sacralità della vita del cittadino viene ripetutamente violata, subisce strappi, abusi, illegalità. Documentiamo questa rottura a opera dello Stato del patto stipulato con i cittadini. Peggio, si è reso responsabile di un attentato alla loro incolumità».
Da Giuseppe Pinelli fino a Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Gugliotta e gli Altri. Non tutti, non basterebbe una vita a comporre la Spoon River di queste morti, che accadono con una frequenza tale da «non poter escludere una vera e propria strategia dell’abuso e della sopraffazione». Quarant’anni fa come oggi, «quando la crisi del sistema della giustizia e del welfare», prosegue Manconi, «ha portato a sostituire il sociale con il penale. Facendo del carcere, e di ogni altro luogo di privazione della libertà (un Cie, un Opg, gli stessi reparti detentivi degli ospedali), la principale agenzia di stratificazione sociale. Se guardiamo la popolazione detenuta, esclusi i criminali di media e alta pericolosità, tutto il resto – la stragrande maggioranza – è povertà, dipendenza, immigrazione, malattia. Persone ai margini e spesso oltre i confini del sistema dei diritti di cittadinanza, in balia delle istituzioni di controllo e della sindrome securitaria».
Un “j’accuse” impietoso, il libro, e che malgrado l’incomunicabile violenza, lo strazio da cui muove e di cui è intriso, non restituisce disperazione. «Il nostro non è un atto di denuncia generalizzato e indistinto», dicono gli autori. «È una precisa presa di posizione basata su fatti, circostanze, nomi e cognomi. Atti giudiziari, referti clinici, perizie autoptiche, interviste ai parenti. Ma mai abbiamo detto, né lo hanno detto Ilaria Cucchi o la mamma di Katiuscia o l’amico di Pino Uva: buttiamo le bombe sulle prigioni, sciogliamo l’arma, diamo fuoco alle caserme. Né d’altro canto, il tono necessariamente emotivo reso dalle testimonianze dei familiari, in virtù di una chiara opzione narrativa, è quello della ragione del cuore contro la ragione di stato. È la determinazione di un cittadino che, a partire dalla consapevolezza di quello strazio, ingaggia una lotta – parola così estranea in apparenza, politica e democratica insieme, per affermare la propria piena cittadinanza».
Una lotta il cui punto di partenza è bene riassunto nel titolo del libro “Una storia quasi soltanto mia” di Licia Pinelli, moglie del “ferroviere anarchico” di Milano. La prima di una lunga teoria di spose mamme sorelle figlie «che hanno scelto di trasformare la tragedia più intima in una risorsa pubblica. Donne che hanno tradotto l’inaccettabile perdita dei loro cari», conclude Calderone, «in domanda di verità e giustizia, da perseguirsi all’interno della legalità».