Pubblichiamo questo scritto di un operatore, attualmente a Giuliano.
Questa è la mia prima auto-intervista e l’argomento è la psichiatria. Ho aspettato 35 anni prima di dire la mia opinione. Lavoro in questo campo dal 1974 ed ho osservato molto attentamente quello che è stato fatto in Italia. La chiusura dei manicomi è il punto di partenza. Per arrivarci s’impegnò molta gente che nulla aveva a che fare con la sanità: insegnanti e studenti, avvocati, ingegneri, giornalisti, sindacati e rappresentanti di fabbriche e anche di grandi insediamenti industriali, gente comune. Molti volevano chiudere i manicomi perché rappresentavano una vergogna e perché sembrava un traguardo possibile. Basaglia aveva aperto la strada mostrando a tutti un metodo e tutti cercammo di seguirlo. Questa prima fase è stata caratterizzata dalla presenza di molte persone non del mondo sanitario, che erano lì per testimoniare la loro volontà di partecipare al cambiamento e di controllare che non fossero commessi abusi o prevaricazioni. Le assemblee vedevano in primo piano le persone che avevano vissuto per molti anni nei manicomi, con loro si cercava di programmare il futuro, il loro futuro. Questo periodo è durato un tempo lungo: alcuni anni: cinque o forse sei, fino ai primi anni anni 80. Appena chiusi i manicomi sono stati aperti i nuovi servizi territoriali per l’assistenza psichiatrica. Questi anni sono stati caratterizzati da molti elementi: la presenza di volontari non pagati provenienti da altri ambiti lavorativi, di studenti ecc. Le assemblee erano quotidiane e tutti potevano esprimere le loro opinioni. C’era un controllo di tutti sul funzionamento di un Centro di Salute Mentale. I medici non avevano lo spazio per comandare: tutti stavano attenti a quello che dicevano perché facilmente venivano messi in un angolo e quindi i discorsi erano sempre ideologicamente corretti. La pratica nuova che stava nascendo prometteva un modo nuovo di curare, di stare vicino, di occuparsi della persona più che del malato. Ovviamente anche molti medici hanno partecipato a questo cambiamento criticando e contestando aspramente gli psichiatri tradizionali. L’ideologia e la politica degli schieramenti erano massicciamente presenti e ognuno cercava di capire quali sarebbero stati i nuovi spazi creati dal cambiamento. Era straordinario osservare queste lunghe assemblee in cui molte persone, diverse per titoli accademici, estrazione sociale, ambiti di provenienza, discutevano per organizzare una giusta assistenza per le persone dimesse dal manicomio. Sembrava tutto positivo: la strategia, gli obiettivi, le motivazioni. Molti vedevano la possibilità di cominciare dai manicomi per poi cercare di cambiare le cose anche in altri ambiti. Mi piacerebbe raccontare di più su questo periodo, sull’enfasi delle frasi, delle promesse, degli impegni. Chiudere i manicomi è stata una vera conquista: la società si è liberata di una vergogna assurda e anacronistica perché, se c’è la malattia mentale, non è certo il manicomio il luogo adatto per curarla. Questo risultato è stato raggiunto dopo che pochi medici e infermieri avevano cominciato ad aprire reparti e poi interi ospedali a Gorizia, Trieste e in pochi altri posti. Il loro esempio ha attirato l’attenzione di molti ed è nata la rivoluzione della psichiatria. Basaglia aveva la capacità di trascinare molti in quest’impresa e molti lo seguirono ma con motivazioni assai diverse tra loro. Anticipo qui il mio giudizio negativo su quanto è stato fatto in seguito, ma sicuramente oggi dormo meglio sapendo che quei manicomi sono stati chiusi. Questo primo periodo che ho descritto è cambiato un po’ per volta. I volontari sono andati via; gli insegnanti, gli studenti, gli avvocati sono tornati alle loro occupazioni, sicuri di aver cambiato le cose per sempre e sicuri di lasciare il cambiamento in buone mani. Ovviamente sto parlando solo di quelli che il cambiamento lo volevano e non di quelli che lo ostacolavano e che l’avrebbero ostacolato per i successivi trent’anni. Man mano che scomparivano i volontari/controllori cominciavano a comparire lentamente i ruoli: ognuno cercava l’occupazione, la soddisfazione della proprie aspirazioni, il posto. Tutti sentivano che la storia della nuova psichiatria si stava scrivendo in quegli anni e quindi facevano attenzione a non scrivere fesserie. Per molti era diventata una nuova identità, un modo nuovo di riempire vuoti esistenziali o semplicemente il tempo libero della precarietà o della disoccupazione. La prima impressione che aveva chi entrava in un nuovo servizio di psichiatria era che tutti facevano tutto, a prescindere dai titoli e che tutti potevano parlare e criticare o proporre. L’illusione di molti era che si stessero cambiando anche i rapporti di forza nell’intera società. Le sollecitazioni ideologiche di quegli anni erano molto forti e parlavano di uguaglianza da raggiungere per molte strade. Ovviamente in quei gruppi di lavoro c’erano gli idealisti, gli opportunisti, gli indecisi, gli estremisti, gli stupidi, le coppie, i singoli e i medici. Quella del medico è stata la figura più interessante in questi 35 anni. Hanno iniziato mettendo il loro sapere a disposizione di tutti; la psichiatria sembrava che fosse diventata inutile, mettendo sempre l’accento sulla cura della persona e non della malattia, sostenendo che la malattia mentale non esiste, che nella società andavano ricercate sia le cause della malattia che i rimedi. Quello che in realtà si percepiva dei medici sin dall’inizio era un fastidio ben mimetizzato: chi più e chi meno, i medici manifestavano sommessamente il diritto a comandare in quei gruppi di lavoro, perché avevano i titoli, le competenze, il ruolo giusto. I colloqui collettivi con i pazienti, cioè con più figure professionali oltre al medico, vennero scoraggiati sempre più. Man mano che i medici riuscivano a restare soli con i malati, scomparivano i progetti terapeutici estemporanei come la proposta d’incontri giornalieri con gli stessi, le visite a case, l’accompagnamento per risolvere problemi domestici banali. Comparvero le prime ricette mediche con una bella diagnosi scritta e una lista di farmaci sempre più ricca. Dietro a quelle prime ricette si percepiva il sospiro di sollievo di quei medici per essere riusciti finalmente a fare il loro lavoro, quel lavoro per il quale avevano tanto studiato e sofferto. Si percepiva anche il piacere ritrovato di visitare una persona senza tutti quei rompicoglioni che volevano controllare il loro operato. La rivoluzione era già finita allora. L’alibi che ha coperto l’inganno per molti anni è stato il fatto che, ovviamente, per quelli dimessi dal manicomio e tornati nelle loro case o in quelle dei parenti, le condizioni di vita erano migliorate di molto. Stare chiusi o tornare liberi sono due condizioni opposte. La loro riconoscenza nei confronti dei medici era il sigillo che sanciva la centralità di quest’ultimi anche se la rivoluzione era stata fatta da tanti. Le assemblee diventavano meno affollate; passavano da quotidiane a trisettimanali, poi bisettimanali, poi una volta a settimana. In queste occasioni il coordinatore degli interventi era ormai sempre un medico. In genere il più carismatico apriva gli interventi per orientare il lavoro di gruppo; lecchini e subalterni confermavano l’orientamento del capo; se qualcuno non era in sintonia e parlava contro, veniva guardato con sempre maggiore insofferenza; l’ultimo intervento era quasi sempre fatto da un altro medico che riassumeva le cose dette dal capo e glissava sulle critiche esposte. I medici rivendicavano sempre più la loro centralità e il diritto a comandare. In quei primi anni, fine anni 70, il ragionamento che si seguiva era semplice ed io lo semplifico ancora di più.
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La malattia mentale non esiste;
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la malattia è prodotta dalla società;
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se non esiste vanno trovati rimedi diversi dai farmaci;
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le cause della malattia mentale erano: la solitudine, l’abbandono, l’esclusione sociale, la privazione di molte cose che gli altri hanno: l’affettività, l’amore, il sesso.
Il rimedio era quindi aiutarli ad uscire dalla solitudine, fargli riavere i loro diritti, affiancarli nella soluzione dei problemi quotidiani, creare situazioni frequenti d’incontro fra loro per favorire la nascita di relazioni affettive e di vita insieme.
Se le cause e i rimedi erano quelli, le figure professionali utili alla persona sofferente erano tante: gli animatori per intrattenerli festosamente, gli assistenti sociali per fargli ottenere la pensione e tutti gli aiuti possibili dai Comuni e dallo Stato, gli avvocati per fargli riavere eredità sottratte dai parenti, geometri per riadattare le loro vecchie case abbandonate da anni, gli infermieri per somministrargli a domicilio i farmaci per la cura delle loro patologie anche non psichiatriche, i volontari per aiutarli a progettare momenti di aggregazione.
Questo schema relegava i medici ai margini: a volte sembravano dei consulenti chiamati per un consiglio dagli altri operatori a proposito di un paziente. Se questa situazione fosse diventata stabile sarebbe stata questa la vera rivoluzione, ma durò poco. Nei successivi sei o sette anni si è visto rimettere le cose a posto da parte dei medici. Il modo per liberarsi dei rompicoglioni è semplice: nella gestione delle risorse economiche, sempre scarse, si riducono o si azzerano i soldi per le varie attività non sanitarie determinando una riduzione delle stesse e quindi riducendo la loro eventuale efficacia nei processi di riaggregazione delle persone. Nelle parole dei medici trasudava continuamente lo scetticismo nei confronti delle attività non strettamente sanitarie e una fede stabile nel rimedio farmacologico. I congressi internazionali erano frequenti e l’Italia si presentava sempre come protagonista del cambiamento. Da tutto il mondo occidentale arrivavano a Trieste delegazioni di esperti e non, per cercare di capire come fosse stato possibile aprire le gabbie e far uscire i pazzi. Trieste capofila del cambiamento e poi via via le altre esperienze italiane. Il fiore all’occhiello di ogni servizio era la capacità di non ricoverare nessuno, di non abbandonare nessuno, di occuparsi di ogni bisogno del paziente. L’obiettivo fissato per tutti era ambizioso ma condiviso: liberare i malati di mente, aiutarli a recuperare il tempo perduto, inserirli organicamente nel tessuto urbano del relativo territorio di provenienza. Inventarsi lavori adatti a loro e sistemarli in case normali. La normalità era il vero obiettivo. E tutti sembravano convinti di raggiungerlo facilmente. Insegnare un lavoro avrebbe dovuto significare il coinvolgimento di artigiani del posto, l’organizzazione di corsi nei luoghi dove si svolgono vere attività imprenditoriali. Invece nacquero infiniti centri di intrattenimento lavorativo in cui, operatori improvvisati, insegnavano a produrre patetici manufatti che potevano essere solo acquistati per fare beneficenza. Situazioni patetiche in cui i medici responsabili hanno relegato pazienti e operatori per la loro arrogante presunzione: ogni decisione su cosa fare doveva essere approvata da un dirigente medico, anche se poi non ne capiva niente di quell’ambito. Il controllo di tutte le attività da parte dei medici, l’impossibilità per altre figure professionali di intraprendere un’impresa autonomamente, con fondi non soggetti ad alcuna autorizzazione, sono state il freno e il bavaglio di quella rivoluzione. Sperimentare sarebbe stato il solo metodo per capire cosa poteva funzionare e cosa non poteva; il controllo si sarebbe dovuto fare sui risultati di una pratica nuova e non sul permettere o meno che quella pratica avesse luogo. Mille possibilità negate, mille persone di talento bruciate dalla cecità di stupidi e ignoranti medici conservatori che non hanno mai capito che quello era il momento di sperimentare, provare nuove strade, osservare senza parlare, avallare, aiutare, far sentire che si potevano cercare nuove vie con molta libertà. Solo dopo aver provato a cercare il nuovo si sarebbe potuto analizzate il tutto con animo sereno per capire che cosa aveva funzionato e che cosa non aveva funzionato. Spesso i rompicoglioni si sentivano rispondere dal responsabile “è una stronzata” e questo troncava intere settimane di progettazione, sogni, possibilità. Perfino se si doveva arredare una stanza era il medico a dire l’ultima parola su cosa acquistare: il medico-architetto, il medico-arredatore, il medico-manager, il medico-esperto, il medicoglione. Senza camice era il simbolo del medico democratico: medicina democratica, psichiatria democratica. Se qualcuno era stupido questo non era un problema, poteva comunque dirigere un centro della rivoluzione psichiatrica. Come sempre è più facile fare la rivoluzione che gestire il dopo-rivoluzione. Tutto questo rappresenta la prima parte della rivoluzione e cioè fino agli anni ottanta. Il peggio doveva ancora arrivare ed erano:
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i nuovi medici;
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i farmaci;
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i farmaci long acting;
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le multinazionali;
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i viaggi-premio delle multinazionali;
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i nuovi manicomi
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i tso e gli SPDC
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le case-famiglia
I nuovi medici sono:
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quelli che non hanno mai visto un manicomio;
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quelli che non hanno mai lavorato in un manicomio;
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quelli che hanno trovato occupati tutti i posti di lavoro sia nella psichiatria tradizionale che in quella alternativa;
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quelli che non hanno avuto il condizionamento ideologico nella loro formazione ma solo quello delle case farmaceutiche;
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quelli che hanno guadagnato i primi soldi lavorando in case di cura private non molto diverse dai vecchi manicomi;
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quelli che non immaginano nemmeno in sogno di poter curare in altro modo che con i farmaci;
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quelli che hanno un farmaco per ogni problema del paziente: la pillola contro la solitudine, la pillola ontro l’abbandono, la pillola contro le violenze, la pillola contro la mancanza di affetto.
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quelli che convincono i pazienti a farsi seguire privatamente e a pagamento negli studi ben arredati perché li le possibilità di guarigione aumentano.
i farmaci
i farmaci hanno veramente effetti straordinari: riescono a far sentire importanti quelli che li prescrivono. Un medico mediocre ne prescrive molti di più di uno bravo perché confonde la quantità con la qualità e abitua la persona malata all’idea che molti farmaci siano meglio di pochi. Riuscire a fare una diagnosi precisa in pochi minuti è un atto di vera incoscienza perché quella diagnosi verrà difficilmente contestata da altri e ad essa saranno associati molti farmaci specifici, consigliati caldamente dai collaboratori delle case farmaceutiche. Definire un paziente paranoico, schizofrenico, psicotico, è cosa semplice; prescrivere farmaci anche. Intervenire sulla situazione familiare del paziente, affrontare i suoi problemi esistenziali, affettivi, sociali è cosa che non li riguarda. I farmaci alla fine risolveranno tutti i problemi.
i farmaci long acting
La grande novità degli anni novanta sono stati i farmaci log acting. Un vero passo avanti per medici e pazienti. Invece di farti una o due iniezioni al giorno te ne faccio una ogni due, tre o quattro settimane: una vera rivoluzione. Il paziente resta con tutti i suoi problemi esistenziali ma il servizio di salute mentale può ridurre di molto le occasioni d’incontro con lui. Le case farmaceutiche pensano davvero a tutto. In sé l’idea non è negativa se il servizio di salute mentale si occupasse quotidianamente di lui e anzi ridurrebbe il tempo della terapia in una giornata ricca di eventi. Invece permette al medico di abbandonarlo semplicemente per un tempo più lungo. I primi sono stati l’Haldol e il Moditen che oggi costano meno di cinque euro per ogni somministrazione. Visto il successo riscontrato presso i medici l’industria si è messa a ricercare nuove molecole sempre più efficaci e oggi somministriamo un nuovo farmaco a lento rilascio (long acting): il Risperdal in fiale da 25, 37 e 50 mg. Sapete qual è il prezzo stampato sulla confezione da 50 mg.? 305,00 euro. Si trecentocinque euro per una fiala. E’ anche questa una vera rivoluzione: ad un paziente psichiatrico gli diamo ogni mese una pensione di 250 euro e una o due fiale da 300. Non sarebbe meglio invertire gli importi? All’inizio si parlava di presa in carico del paziente da parte del servizio di salute mentale, oggi si assiste alla presa per il culo dello stesso paziente.
le multinazionali
Le industrie del farmaco rappresentano la scuola di formazione dei medici. Orde di informatori pseudo-scentifici intasano gli ambulatori dei medici spargendo a piene mani consigli sui nuovi farmaci. Avendo assistito a molti colloqui fra medici e informatori posso dirvi che ogni nuovo farmaco viene così descritto: “quasi privo di effetti collaterali, colpisce il bersaglio con maggior precisione del precedente, costa solo un poco di più ma certo, rispetto ai benefici, è poca cosa”. Nelle riunioni di un’equipe d’informatori di una casa farmaceutica, all’interno di una delle loro lussuose sedi, la scena è diversa: i medici sono considerati come vacche d’allevamento che devono produrre sempre più latte, cioè prescrivere sempre più farmaci di quell’azienda. Il budget, il target, le stime di vendita, gli obiettivi aziendali sono il sale, il pane del lavoro. Delle condizioni dei pazienti non glie ne frega niente a nessuno. Nessun informatore verifica mai le condizioni di un paziente a cui sono stati somministrati i farmaci che lui consiglia ai medici. Se un medico prescrive pochi farmaci di quella casa allora deve essere incentivato a fare di più: un maggior numero di visite dell’informatore, la promessa di un viaggio in Italia o all’estero dove potrà portarsi anche la moglie o il marito o anche un’amica o amico. I farmaci psichiatrici hanno come obiettivo la cronicizzazione del paziente e non la guarigione. Un farmaco per la bronchite o per l’emicrania deve avere l’effetto di guarire quella malattia, di far scomparire i sintomi per un lungo periodo. Siccome in psichiatria non si parla mai di guarigione, allora deve essere veramente uno sballo produrre farmaci per una malattia inguaribile, come la malattia mentale, per pazienti ai quali non è nemmeno permesso di chiedere i danni per non essere stato guarito.
i viaggi-premio delle multinazionali
Viaggiare è diventata una vera cuccagna per i medici. Partecipare ad un convegno in Italia o fuori è considerato aggiornamento professionale per i medici dei servizi sanitari pubblici e costituisce un’assenza giustificata. Viaggi aerei, alberghi a cinque stelle, ristoranti lussuosi sono la prassi per un convegno di specialisti e nessuno si pone mai problemi etici o economici. Gli informatori sono diventati amici dei medici ed insieme progettano viaggi in posti belli. Quando un medico ti parla di un posto turistico è molto facile che ci sia andato per un convegno e sicuramente ospite di una casa farmaceutica. Provate ad immaginare un medico che ha partecipato ad una mattina di convegno più o meno interessante, che ha pranzato abbondantemente e bevuto anche del buon vino: secondo voi sta pensando ai benefici di un farmaco, ai miglioramenti della condizione dei malati o ad altro?
i nuovi manicomi
se un paziente diventa ingestibile per la famiglia, il servizio di salute mentale può ricoverarlo in una struttura convenzionata. Queste strutture possono essere da molto brutte a molto belle, esteticamente e funzionalmente, ma sono il nuovo eldorado. Per un paziente la struttura riceve dall’ASL un compenso elevato: intorno ai 200 euro al giorno. Molti vi rimangono per mesi o anni con costi astronomici. Con gli stesi soldi o anche meno si potrebbero finanziare attività territoriali con operatori in grado di organizzare la vita di una persona senza deportarla e isolarla. Spuntate come funghi, queste strutture convenzionate accolgono pazienti con qualsiasi patologia e aiutano le famiglie e i servizi pubblici a disfarsene, in cambio però di molti soldi.
i tso e gli SPDC
Un paziente agitato, violento, aggressivo, può essere ritenuto ingestibile per il servizio di salute mentale ed il medico può disporre per lui un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). In questo caso il paziente può essere trasportato, anche contro la sua volontà, in un Servizio Dipartimentale di Diagnosi e Cura (SPDC) in cui rimarrà per una o più settimane e comunque fino a quando le sue condizioni torneranno ad essere stabili e compatibili con la convivenza familiare. Questa pratica è necessaria in molti casi e non può durare molto. Inoltre occorre l’autorizzazione del Sindaco del Comune dove il paziente risiede e, ancora, il giudice tutelare può intervenire per chiedere chiarimenti, cosa anche frequente. Quindi è considerato un utile presidio tecnico a disposizione di un dipartimento di salute mentale. Il problema è che molte volte lo stesso paziente subisce due o tre o quattro TSO in un anno e questo ha un significato negativo. Se un servizio trascura le condizioni di vita materiale di una persona, se non si occupa delle sue tensioni, se non l’aiuta nella ricerca di un modo di vita più adeguato, questa persona passerà da un ricovero all’altro senza alcuna speranza di miglioramento. Saranno solo i farmaci a determinare l’intervallo di tempo fra due ricoveri. Ritorniamo sempre ai farmaci se si è scelto di delegare loro il destino di tanti pazienti.
le case-famiglia
le case-famiglia o gruppi-appartamento o Strutture Intermedie Residenziali (SIR) sono la testimonianza di una promessa mancata. Le SIR sono finanziate dalle ASL e sono controllate dal Dipartimento di Salute Mentale; la gestione è in genere affidata al personale delle cooperative sociali. Gli aspetti positivi: ospitano pochi pazienti; l’igiene personale e ambientale è generalmente buona; il vitto è decente; spesso si organizzano momenti di aggregazione come gite, brevi vacanze, feste; si cerca di accontentare le richieste degli ospiti su cosa mangiare, sulla scelta di un abito da comprare. Insomma rispetto al manicomio c’è un abisso e anche questa certezza contribuisce a farmi dormire meglio. Ma la promessa iniziale era un’altra: restituire l’autonomia a quelle persone, aiutarle a vivere da sole nei loro Comuni di residenza, convincere la gente del posto che non si trattava di persone pericolose, incentivare la vicinanza fra sani e malati. Invece la rivoluzione si è fermata li. Il pensiero che ha determinato la rinuncia a cercare una vera autonomia dei pazienti psichiatrici è un pensiero condiviso ormai da tutti gli operatori, dagli amministratori pubblici, dai cittadini: abbiamo fatto anche troppo per loro, vivono in residenze confortevoli, serviti e riveriti, non fanno niente dalla mattina alla sera, ma cosa vorrebbero di più? Nessuno dei medici anziani ricorda più le promesse fatte al mondo. Nei loro attuali panni di Capo Dipartimento, Primario, Responsabile della Riabilitazione, Responsabile dei rapporti con le Strutture Convenzionate, hanno spostato la loro attenzione dai pazienti ai loro titoli e conti correnti e nessuno, dico nessuno, ha capito che portare a completo compimento quella rivoluzione, cioè ridare completa dignità a quelle persone, avrebbe significato entrare nella storia.
Coclusione
Da sempre c’è una domanda che viene periodicamente riproposta anche se ormai sempre meno: la malattia mentale esiste o no? Gli anglosassoni dicono di si, che è prodotta dalla mancanza di un enzima o di una proteina, che è ereditaria o familiare. In Italia si sostiene che è una malattia prodotta dalla società nelle situazioni di forte stress emotivo, che rimuovendo le cause si rimuove anche la malattia. Qualunque sia la verità io me ne fotto. Una persona definita malata ha dei problemi, dei bisogni, delle necessità. Che possa guarire o no me ne fotto. Io comincio a fargli compagnia spesso, lo accompagno a fare i suoi servizi per la sua sopravvivenza, parlo con lui delle cose che gli piacciono, lo aiuto a cucinare i suoi piatti preferiti, vado con lui in vacanza, vado con lui al cinema, mi faccio raccontare i suoi sogni e gli racconto i miei, gli do pacche sulle spalle mentre parliamo, per fargli sentire che non provo ribrezzo a toccarlo, sto con lui a Natale ,Capodanno, a Pasqua, sempre. Litigo con chi lo sfotte, chiamo i Carabinieri se c’è qualcuno che lo importuna, gli faccio sentire che ha i suoi diritti e che c’è qualcuno che lo aiuta a difenderli, gli dico di chiamarmi sempre a tutte le ore anche solo per dirmi una stronzata. Dopo tutto questo, solo dopo, mi chiedo se ha bisogno di un farmaco e mai, mai, mi chiedo se la malattia mentale esiste o no. Quello che so è che esiste la solitudine, la mancanza di affetto, la violenza della gente e delle istituzioni, la privazione dei diritti umani. E se è una malattia ereditaria o no, se può guarire o no, io me ne fotto. Un vero Servizio di Salute Mentale dovrebbe fare tutto questo prima di ogni altra cosa. E’ chiaro che uno schema simile relega la figura del medico sullo sfondo. E’ il medico che impedisce il cambiamento. A queste richieste si risponde con la più becera, rozza e incolta delle risposte: e dove li troviamo i soldi per fare tutte queste belle cose? Basterebbe rendere pubblico il bilancio dettagliato di un Dipartimento di Salute Mentale: potremmo finalmente conoscere qual’è la spesa per i farmaci, quella per i ricoveri in strutture convenzionate, quella per la formazione professionale, quella per le consulenze. Ma ormai i medici e gli amministratori delle ASL hanno chiuso il cerchio ribadendo che quella attuale è l’unica e la migliore assistenza psichiatrica possibile.
Fra due anni vado in pensione.
5 Comments
Gentilissimo,
ho letto con interesse il suo scritto. Lei si chiede se esista o meno la malattia mentale: ad oggi nessuno (psichiatra, psicologo, medico…) è stato in grado di dimostrare con esami clinici sensibili e specifici l’esistenza di questa malattia. Eppure molti continuano a prescrivere psicofarmaci per curarla!
Le consiglierei di leggere il libro di Thomas Szasz “Il mito della malattia mentale” e i libri di Giorgio Antonucci (“Lezioni della mia vita”)che per me sono stati un esempio di libertà intellettuale e di etica. Giorgio Antonucci, che ha lavorato con Basaglia, è uno dei più solidi riferimenti in questo settore, a differenza di molti psichiatri che dicono di aver lavorato con Basaglia ma che continuano a fare tso che sono una grave violazione della libertà dell’individuo.
Cordiali saluti,
Lisa
Quasi quotidianamente scrivo e faccio interviste ai medici. Ma questa è la mia prima riflessione “libera” sul mio lavoro, fatta sulla spinta delle riflessioni e delle emozioni suscitate in me dalla lettura della autointervista di G.D.
E’ da 12 anni che lavoro come consulente nel settore salute di importanti istituti di marketing milanese; in pratica conduco interviste qualitative, motivazionali face to face o di gruppo con i medici di varie città campione in Italia per capire quali sono le rappresentazioni di una certa malattia, qual è l’opinione e l’esperienza con i diversi farmaci, quali sono gli orientamenti terapeutici attuali e prefigurati per il futuro. Poi stendo la mia relazione cercando di cogliere i nessi e le ragioni alla base dei dati ricorrenti, condivisi, così come delle differenze fra medico e medico, in base alla specialità, al centro di lavoro, all’area geografica, alla pressione delle case farmaceutiche ecc.
E’ un lavoro che mi piace molto, perché sono pagata per confrontarmi con gli altri, ascoltarli, riflettere e scrivere, e perché mi piace imparare e capire molte cose sulla medicina, argomento di mio reale interesse.
In particolare io sono una appassionata cultrice di alcune pratiche mediche cosiddette “alternative” come Omeopatia, Kinesiologia, Agopuntura, Nuova Medicina di Hamer, e queste mie conoscenze rendono ancora più interessante l’approfondimento di quelle che sono le credenze e le pratiche della medicina “ufficiale”, perché dentro di me vive un costante integrarsi dei dati, un continuo e serrato confronto fra i punti di vista con un effetto di progressivo e sistematico sgretolarsi della presunta assoluta “scientificità” della medicina ufficiale che è in molti casi volonterosa, dignitosa, soddisfacente (in alcuni è invece una presa per il culo come dice Gigetto), ma né più né meno di altre medicine che non godono come questa dello scudo ideologico del “paradigma”, del “dogma” scientifico, ma sono anzi demonizzate come “credenze” ingannevoli.
Ma dov’è l’inganno? Io ne vedo tanti.
Sicuramente quello di cui parla Gigetto legato alla promozione e alla spinta delle Case Farmaceutiche che sono industrie private interessate al profitto esattamente come negli altri settori merceologici, vedo l’inganno dello Stato che delega a queste la ricerca e l’aggiornamento dei medici e un inganno nella cultura che questo produce che è necessariamente una cultura del “consumo” farmacologico di cui i medici sono spesso vittime, al di là di ogni buona o cattiva intenzione, del congresso sponsorizzato alle Maldive piuttosto che sotto casa.
Ma il primo inganno, il più tosto e difficile da scalfire è quello culturale, ideologico, simbolico della medicina ufficiale condiviso da tutti i suoi attori: dai medici, dai sani e dai “malati” ovvero l’impossibilità di mettere in discussione i criteri stessi con cui la medicina afferma se stessa, il “metodo”; si possono criticare la corruzione del sistema, i risultati buoni o cattivi, si può anche criticare (e rifiutarsi di prendere) la medicina in più o in meno, ma il metodo nessuno si può permettere di criticarlo e nessuno lo critica, ecco cosa intendo come dogma.
Tanto per fare degli esempi concreti:
– se fallisce una terapia ufficiale è perché il medico ha sbagliato, la malattia era troppo cattiva o il malato troppo debole, ma non si criticano mai i presupposti di quella terapia; si arriva fino al punto di introdurre (ed accettare tutti, medici e pazienti) nella cattedrale della scienza e dell’oggettività, il criterio di “sfiga” spesso declinato più elegantemente come predisposizione genetica (che in alcuni si attiva in altri no, quindi qual è il motivo? Dov’è la risposta al come, ai perché? ….La risposta della scienza?? Il caso!);
– se una terapia ufficiale ha successo è per la forza e il valore del farmaco e del sistema di cura (non del malato, delle sue risorse interne);
– se fallisce una terapia omeopatica (o chi per essa) è perché è il metodo sbagliato, è la medicina che non vale niente;
– se ha successo è perché la malattia non era bastarda, il paziente aveva delle sue risorse e sarebbe guarito lo stesso, è la suggestione, l’effetto placebo;
– il criterio della chimica newtoniana (alla base delle nostre medicine) deve essere universale: ma è come pretendere di analizzare con quel criterio il contenuto di un libro o di un disco e dire siccome all’analisi chimica c’è solo carta o plastica, che dentro quello strumento non c’è altro, non c’è nessuna informazione significativa. L’omeopatia ad esempio agisce con uno stimolo che è sub-molecolare cioè prettamente energetico (presente Einstein e la fisica quantistica? Ecco invece in medicina non si può parlare di “energia” se no si è frikkettoni orientalisti) così come l’agopuntura, che agisce come stimolazione energetica che ha effetti documentati da secoli;
– si pretende ad esempio di valutare l’efficacia dei rimedi omeopatici con studi di confronto in doppio cieco: a parte che sulla validità e la significatività di questi studi dal punto di vista della clinica c’è molto da dire (una differenza tirata per il collo nella statistica non necessariamente corrisponde a vantaggi significativi nella clinica), ma comunque non si può fare uno studio, diciamo per farmaci contro il mal di testa e confrontare 100 pazienti con la Nimesulide contro 100 che prendono Belladonna, perché uno dei principi fondamentali dell’omeopatia è che non esiste la malattia, ma il malato e non tutti i malati “sono” Belladonna quando hanno il mal di testa; quindi peculiarità della omeopatia è l’individualizzazione del rimedio che necessariamente non può essere fatta in doppio cieco, ma va anzi fatta da un medico con gli occhi, le orecchie, il cervello ed il cuore ben in funzione.
Ma l’omeopatia ha materie prime ed una tecnologia di preparazione molto semplice. Tutti i rimedi provengono dal mondo animale, vegetale, minerale e ormai è troppo tardi per brevettare cose tipo il sale da cucina (Natrum muriaticum) oppure le api che volano in giardino (Apis) ecc. ecc. E’ una medicina troppo economica. Un terreno di conquista non interessante per le aziende farmaceutiche che se non possono comprare, acquisire, devono “reprimere”.
– Si critica la kinesiologia perché sembra cosa da stregoni avere risposte dal corpo dei malati. Ma perché un cane, un gatto, un canarino (che si dice abbiano un cervello immensamente più limitato del nostro) dovrebbero capire cosa gli serve per guarire (ad esempio selezionando una alimentazione specifica) mentre noi dovremmo essere completamente ignari e ignoranti dei nostri processi fisici e mentali e di ciò che ci serve per guarire?
– Ma la cosa di fondo, che tutto sommato mi stupisce di più, è che gli sforzi della nostra medicina non sono rivolti a dare risposta alle domande più importanti: Perché alcuni si ammalano ed altri no? Perché alcuni guariscono ed altri no? Una volta durante un’intervista un oncologo romano mi disse che due persone con lo stesso melanoma, della stessa tipologia e gravità, con lo stesso referto bioptico possono avere due andamenti e due esiti molto diversi, perché comunque non siamo tutti uguali. Che inspiegabilmente c’è una piccola quota di persone che guarisce completamente. Ed è una cosa così inspiegabile per la medicina che in quei casi si mette in dubbio la diagnosi (pur di non mettere in dubbio il sistema, cosa non si farebbe!!) Ecco io mi chiedo: ma perché tanto accanimento e tante risorse per capire quale chemioterapico allunga la vita di due settimane o due mesi in un tot percentuale di pazienti (che comunque vivono malissimo per via degli effetti collaterali) e nessuno si preoccupa di studiare approfonditamente chi è guarito, cosa aveva di diverso, cosa ha vissuto di diverso rispetto agli altri, a quali risorse ha attinto?
Se l’è chiesto con rigore scientifico e teutonico il dott Hamer, medico oncologo tedesco a cui Vittorio Filiberto ha ucciso il giovane figlio Dirk.
Si è fatto un sacco di domande il dott. Hamer, perché dopo quella morte ha sviluppato un tumore ai testicoli (luogo simbolico della virilità quindi della paternità). Così ha ripreso tutti i suoi dati di oncologo, tutti i contatti con i suoi pazienti ed ha iniziato ad analizzare il problema da un’altra prospettiva. Ed è arrivato a scoprire delle cose molto interessanti che rendono auspicabile una presa di coscienza ed una conoscenza da parte del malato. Il dott. Hamer naturalmente è stato radiato dall’albo dei medici, ma non solo. E’ stato anche imprigionato due volte. Lui è anziano ma se ne frega. Dice che in carcere ha lavorato moltissimo.
Potrei andare avanti con molti altri esempi, ma mi fermo qui. Penso di aver reso l’idea.
Dal mio particolare osservatorio, oltre a questo c’è sicuramente anche tutto quello che descrive Gigetto sulle case farmaceutiche.
C’è l’avidità di personaggi che pensano di poter vendere facilmente qualunque menzogna, manager di prodotto che prima ancora di aver recepito i risultati di una ricerca sono già lì che pianificano strategie di vendita con i dollaroni verdi che gli girano nelle orbite.
Ci sono i medici scazzati, che se ne fregano dei malati e del loro lavoro ma sono interessati solo a fare il viaggio a scrocco e lo dicono anche apertamente, senza pudore.
C’è che non si fa ricerca e non ci sono farmaci per le malattie “rare” o poco diffuse (anche quelle emergenti) e che nel futuro non avremo più antibiotici a coprire le resistenze, perché nessuno ne ha più in studio e c’è invece un affollamento di interessi e di competizione nelle patologie a larga diffusione, le più frequenti, le croniche e lì c’è la corsa a spingere sugli alti dosaggi e sui trattamenti continuativi “di fondo” per vendere di più!
In tal senso la psichiatria, la malattia mentale (dove sicuramente ci sono interessi molto grandi) è in buona compagnia: ipertensione, diabete, dislipidemie, osteoporosi, artrite reumatoide, BPCO, e anche le malattie non croniche ma recidivanti come ad es. asma, allergie, psoriasi ecc…. malattia mentale, non sei sola!!!
Quindi le riflessioni di Gigetto sulla medicina degli anni 80 non mi meravigliano.
E’ quello che ho visto e vedo da quando faccio questo lavoro.
Ed ho visto (ed ahimè, contribuito) alla creazione “comunicazionale” del farmaco che rispondeva ai desideri dei medici: quello per la serotonina, per la noradrenalina, quello selettivo e quello ad ampio spettro, quello per i sintomi positivi, produttivi e quello per i sintomi negativi, di chiusura, quello più tranquillizzante, quello più attivante, quello più stabilizzante ecc. in una diversificazione, dissezione del malato, della malattia, delle indicazioni, dei sintomi che non è solo business, ma piace tanto ai medici, perché, secondo me, è in continuità con i presupposti stessi della nostra medicina che è nata sul tavolo anatomico e proseguita “in vitro”.
Che è in grado solo di prendere in considerazione dei pezzi, dei brandelli di persona.
La persona viva nella sua complessità ed interezza è un fastidio, un noioso “sporcarsi” del quadro, non interessa, crea fatica, una inutile perdita di tempo, confusione.
E a proposito di persone e di come sono fatte, devo dire che io stessa le rare volte che sono andata presso i reparti di psichiatria, mentre ero in attesa del medico nei corridoi, con i malati che mi giravano attorno, magari chiedendomi soldi o sigarette o semplicemente osservandomi ho provato grande disagio e perfino un sentimento di paura. Paura di un contatto fisico, di una eccessiva vicinanza. Quella diversità era inquietante perché metteva in crisi la mia “normalità”: come devo comportarmi per non dare nell’occhio? Per non sembrare strana a questi strani?
Ecco, mi piacerebbe una volta tanto chiedere ad un medico, invece che dei farmaci, di com’è la sua relazione, il suo vissuto verso questi pazienti, cosa prova e come ha fatto a superare le sue resistenze e quelle dei malati per stabilire un contatto.
Magari un giorno lo chiederò a Gigetto.
Ma intanto leggere il suo scritto mi ha aperto il terz’occhio, ha aperto il mio sguardo su un orizzonte inaspettato, su una esperienza del passato che non avevo idea fosse stata così forte e “rivoluzionaria”, così importante non solo per i poveri malati finalmente fatti uscire dai manicomi e non solo per i medici, ma per delle intere comunità, per l’intera società.
Sicuramente mi ha colpito molto anche il suo ragionamento sullo spreco di risorse, vero per tutta la sanità, ma ancor più vergognoso per malati che sono sotto il livello di sussistenza e senza risorse lavorative e spesso familiari.
Ma quello che mi ha colpito più profondamente è stata la parte finale del suo scritto, quella delle conclusioni.
Penso che sia di una forza incredibile.
Anche perché non so quanti medici e quante persone come lui ci siano in giro.
Fra due anni lui va in pensione, resta questo “testamento” professionale ed umano che dovrebbero leggere tutti i futuri psichiatri. Tutti i futuri medici. Tutti noi.
G.F.
Ho 38 anni. Ho seguito la fiction su Basaglia alla RAI ed ho visto per la prima volta le immagini dei manicomi. Mi hanno molto colpito per la violenza di quei contesti e ho deciso di approfondire un poco di più l’argomento. Un amico mi ha prestato “L’istituzione negata” scritto da Basaglia ed ho cominciato a farmi un’idea più precisa sul suo pensiero ed i suoi obiettivi. Della psichiatria non conoscevo quella realtà lontana ma solo quella attuale: ho due amici che vengono seguiti da un dipartimento di salute mentale. Attraverso la loro esperienza ho imparato termini e sigle che mi erano del tutto sconosciute: TSO, SPDC, farmaci long acting. Le famiglie dei miei due amici si lamentano sempre per i problemi che devono affrontare ogni giorno per andare avanti nel tentativo di conciliare la loro vita con la scelta di non abbandonare e rinchiudere i loro familiari. Ho sempre pensato che fosse quella la normalità terapeutica, che fosse il meglio che si potesse ottenere da un servizio pubblico. Leggere Basaglia mi ha mostrato l’esistenza di una possibilità diversa, di un modo di curare migliore, di ridare dignità ai pazienti come di un vantaggio per tutti noi. Da allora è passato molto tempo, Basaglia è morto. Non sono un’esperta questo è chiaro ma, conoscendo gli attuali standards di assistenza psichiatrica nel mio territorio del suditalia, mi sembra di poter dire che ci troviamo di fronte ad una promessa mancata, ad un tradimento di un’impostazione assai diversa che era alle origini di questo cambiamento. Sono arrivata per caso a sapere del sito web “salutementale.it” ed ho cominciato a leggere e mi sono imbattuta nella tua autointervista e nei commenti ad essa: lì si legge la conferma dei miei sospetti. Quello che faceva Basaglia nella sua pratica e quello che si fa oggi nei Dipartimenti di salute mentale sono due cose assai diverse: lui svuotava i manicomi per ridare dignità alle persone, oggi si riempiono centinaia di strutture private per togliere dignità definitivamente alle persone. Quando parli dei nuovi medici, delle nuove medicine dici cose che conosco anche io ma che non avevo mai valutato criticamente perché non conoscevo altre realtà. Bisognerebbe “SPUTTANARE” molti medici dei servizi pubblici di salute mentale, bisognerebbe rimandarli a scuola a studiare il pensiero e le teorie di Basaglia e non perché così tutte le persone sofferenti guarirebbero: accetto anche l’idea di non poter guarire ma non quella di essere abbandonata e umiliata. Spero che questo piccolo dibattito possa allargarsi ad altri.
R.C.
Ho letto e riletto questa “auto-intervista” di cui ci vengono presentate solo le risposte, non già le domande. Ho perso il sonno: se questo è il portato di 35 anni di lavoro antimanicomiale siamo messi bene davvero.
In effetti sembra che “l’operatore di Giuliano” autore di questo intervento (ma perché non si firma?) abbia capito tutto da tempo, particolarmente che è inutile farsi domande. E dopo tanto silenzio, a un passo dalla pensione vuole dirci la sua. Così si mette a tirare fendenti a destra e a manca: un po’ approssimativi, un po’ alla viva il parroco. Infine ci dà una perla di saggezza universale: me ne fotto.
Il suo fottersene non riguarda cose poco importanti, come lui forse pensa, riguarda il cuore della questione. Perché se la malattia mentale esiste allora i pazienti avrebbero il diritto di scegliere la cura e anche di rifiutarla; mentre se non esiste allora prescrivere e somministrare farmaci pesantissimi, disabilitanti e talvolta assassini è molto più che un sopruso, è un crimine. Un crimine di pace, come avrebbe detto il citatissimo (sempre più a sproposito) Basaglia.
Non un crimine ma una banalizzazione insopportabile è del resto porre la questione in questi termini, visto che le “menti migliori della mia [e molte altre] generazione” hanno cercato di focalizzare correttamente il problema, e non si possono certo ridurre le drammatiche e complesse vicende storiche di più d’una disciplina a categorie come “gli anglosassoni”, gli italiani”, i medici nuovi, quelli vecchi e così via.
Ma l’anonimo di Giuliano se ne fotte. Lui se una persona è malata o meno chi se ne frega, ci va al cinema, la accompagna a fare la spesa, ci passa il Natale insieme. Gli dà anche le pacche sulle spalle per dimostrargli che non gli fa schifo. Che è come dire: sorrido ai negri quando li incontro per dimostrargli che non sono razzista.
Quello che l’operatore di Giuliano non sospetta è che proprio così lo vogliono. Il sistema psichiatrico, le case farmaceutiche, i medici vecchi, nuovi, gli anglosassoni, gli italiani (ma dove le ha prese queste categorie?) e poi ancora gli psicosociali, i progressisti, i democratici, gli autoritari, i presidenti di cooperativa, i responsabili di quelle case famiglia che egli denuncia, le “orde” (furbissime, si presentano sempre alla spicciolata) di informatori farmaceutici. Lo vogliono così, pronto a distribuire pacche sulle spalle e evitare di farsi domande. Il lavoro viene meglio se condito di comprensione e umanità. Se chi lo svolge è pronto a chiamare i carabinieri quando qualcuno importuna la persona in difficoltà.
L’importante è che non chiami i carabinieri quando uno psichiatra prescrive due, tre, quattro, fino a nove psicofarmaci in una volta sola a un poveraccio che sta fuori dal manicomio, sì, ma ben psichiatrizzato e distrutto per sempre in virtù di qualcosa che viene definito malattia ma che non si sa cos’è e nemmeno “se esiste”.
Gentile operatore, dal suo intervento traspaiono due cose buone: intenzioni e disponibilità. Ma poi queste cose, per concretizzarsi effettivamente e non in semplici pacche sulle spalle, che rafforzano anziché indebolire la psichiatrizzazione forzata, hanno bisogno di pensiero e di parole appropriate, non di luoghi comuni alternativi.
Pensieri e parole, per dirla con Lucio Battisti.
Perché le parole sono pietre, e il pensiero è carne viva almeno quanto la pizza, il cinema, il cenone di Natale. La coscienza della propria condizione, quella degli operatori e quella degli utenti, non è cosa che si deleghi né che possa venire differita fino al giorno della pensione, è cosa che si conquista oggi, riflettendo e mettendosi in discussione, soprattutto evitando slogan come “me ne fotto”, che in una versione più educata è da sempre uno slogan fascista. Da sempre la sinistra, ultimo il PD che pure di sinistra non è, oppone al menefreghismo un (anglosassone?) I care.
Da quando, è ormai quasi una settimana, mi sono imbattuto in questo intervento non ho smesso di pensarci, ho scritto tre o quattro lettere di risposta, per un totale di una quindicina di pagine, ho cercato di considerare la cosa da molti punti di vista, ho perso molte ore di sonno e non mi vergogno a dirlo, ha avuto la tentazione di soprassedere ma non ce l’ho fatta. E la mia conclusione (mia, altri hanno tutto il diritto di concludere diversamente) è sempre un arrabbiato e dolente: tutte le strade portano all’inferno, particolarmente quelle lastricate… beh, lasciamo perdere, se mi metto anche a citare i proverbi, vuol dire che sto proprio invecchiando.
Forse è ora che incominci anch’io a chiedermi quanto mi manca alla pensione.
Distinti saluti, Gian Piero Fiorillo.
Cari tutti, sicuramente è tardi per dire la mia, ma leggo solo ora questi scritti. Grazie a tutti, l’operatore di Giuliano ha detto tante cose importanti, come tutti, come G.F. sull’omeopatia che conosco e pratico anche in questo delicato ambito. L’operatore di Giuliano non ha detto solo “me ne fotto”, anche se l’espressione è forte e può essere equivocata, ma a me sembra “da arrabbiato forte”, lo ringrazio per le cose che fa, perché i farmaci non sono il suo primo approccio, ma l’ultimo, come dice, perché il suo lavoro non lo misura come l’obbligo di guarire (chi potrebbe avere questa deità?) ma almeno ci prova, a stare accanto alla persona sofferente. E prova a parlare pubblicamente in questo sito, grazie. Sono certa che ne parla anche nel suo lavoro, è troppo lucido e troppo arrabbiato (giustamente) per non farlo. Penso che se non ne parlasse sarebbe già scoppiato da un po’ ed invece è ancora quì con la sua rabbia, a sperare che nasca qualcosa. Grazie, anche se in ritardo. Leda