Sul non-sapere delle discipline psy, per una nuova politica delle pratiche sociali
Benedetto Saraceno e Luca Negrogno propongono una riflessione critica a tutto il campo sui saperi e le pratiche delle discipline psichiatriche e psicologiche.
L’attuale situazione sociale, che la pandemia ha contribuito a smascherare come insostenibile sul piano delle disuguaglianze globali, impone una riflessione su come dovremo tornare a considerare la questione centrale della miseria epistemologica e morale della psichiatria e di tutti i saperi psy. Nel fare questo sappiamo di poterci accostare a un pensiero per larga parte già esistente: il processo di messa in discussione pratica e teorica avviato con la deistituzionalizzazione, il superamento della falsa oggettività del tecnico sintetizzato da un libro ancora fondamentale come “L’istituzione negata”, la necessità di uscire dallo specifico psichiatrico per tornare ad interrogare i sistemi sanitari, il welfare, le forme di convivenza attraverso cui si realizzano i diritti di cittadinanza. Non stiamo dicendo che le cose siano rimaste ferme negli ultimi 40 anni: la proposta pratica basagliana si è certamente arricchita e sviluppata sugli assi della presa di parola da parte delle popolazioni locali, non solo dei servizi psichiatrici ma anche dell’area della disabilità; si sono sperimentate forme di innovazione “dal basso” delle pratiche sociali: dai budget di salute comunitari realizzati inizialmente da Franco Rotelli ad Aversa, dove a un’ottica “manageriale” dell’assistenza fondata su rette e posti in strutture residenziali si era sostituita l’attivazione di cooperative, il recupero di beni confiscati alla criminalità organizzata, la reimmissione in circolo di risorse pubbliche per il benessere e l’inclusività dei territori. Si è sistematizzata la lotta alla contenzione, si sono sviluppate forme di cooperativismo che vedono gli utenti veri protagonisti, si sono moltiplicate le esperienze di salute mentale territoriale “forte”.
In questi mesi di pandemia si stanno moltiplicando documenti, manifesti e campagne di sensibilizzazione sulla salute mentale, che toccano gli ambienti più disparati (dal World Economic Forum di Davos fino alle giornate mondiali di sensibilizzazione, sempre più diffuse). Se da una parte questo indica una raggiunta consapevolezza rispetto alla rilevanza di questo tema, cosa che può avere effetti indiscutibilmente positivi nel nostro contesto nazionale in cui i servizi di salute mentale sono sottofinanziati e spesso operano sotto organico, c’è da evidenziare il limite che tali dichiarazioni e tali campagne servano solo a riprodurre un generico discorso “politicamente corretto”, che non aggiunge nulla se non a illudersi sulla efficacia di affermazioni di principio, totalmente slegate dalle pratiche reali.
In particolare, accanto a iniziative importanti e salutarmente operative come la recente Conferenza Nazionale Salute Mentale, che ha promosso un confronto aperto tra stakeholders, che ha saputo considerare la voce delle persone che utilizzano i servizi e delle loro famiglie, che, infine, interloquisce dialetticamente con i Ministeri e con le amministrazioni pubbliche, c’è invece da guardare con una certa perplessità a quelle mobilitazioni che restano legate alla enunciazione di principi e che sembrano scarsamente sintone con la realtà quotidiana dei servizi pubblici.
Le dichiarazioni sulla importanza della salute mentale e sulla necessità di buone pratiche psichiatriche sono spesso generiche e rischiano perciò di creare l’illusione di un fronte unico che più è vasto e più dovrebbe interrogarsi sulle ragioni di tanto e vasto arretramento delle buone pratiche dei servizi. In altre parole, se siamo tanti come spiegare tante cattive pratiche? Sarebbe forse più utile, invece, non tanto ragionare in termini di buoni e cattivi psichiatri/psicologi/infermieri/operatori ma piuttosto di buoni e cattivi servizi. I servizi sono più potenti dei singoli che in essi operano e dunque buoni servizi riescono a trasformare in buoni operatori anche i mediocri mentre, ahimè, i cattivi servizi possono rendere impotenti e cattivi anche gli operatori più capaci. Dunque, non accontentiamoci di dichiarazioni, soprattutto quando enunciano principi sui cui tutti possono essere d’accordo come, ad esempio, la necessità di interventi bio-psico-sociali, parola che non dice nulla perché dice tutto, o la necessità di umanizzare gli interventi. Sorvolando sul fatto che la psichiatria è maestra nel negare nella pratica ciò che afferma nelle sue dichiarazioni (da quanti anni le associazioni professionali degli psichiatri evocano l’“etichetta” dei diritti umani ma sono complici nelle pratiche che li violano?), attraverso queste dichiarazioni assistiamo alla vecchissima riproposizione di approcci psichiatrici, presentati in alternativa fra loro e alla evocazione della preminenza delle psicoterapie o delle tecniche della riabilitazione. Il dibattito sui modelli biomedici e neuroscientifici contrapposti alle tecniche psicodinamiche e ai protocolli riabilitativi rischia di farci perdere di vista la possibilità di una reale messa in questione della psichiatria e in generale dei saperi psy (come ci insegna il gesto pratico e teorico di Basaglia), della loro incongruenza diagnostica, della loro inesistenza prognostica, della loro ambiguità terapeutica (considerando in egual misura tutte le terapie e tutte le tecniche). Solo contestualmente a questa messa in questione potremo capire meglio quali siano state quelle pratiche che hanno restituito senso, possibilità di vita e diritti di cittadinanza a coloro identificati e schiacciati sotto l’etichetta omnipervasiva di malati, forse anche grazie alla decostruzione del discorso della psichiatria e alla promozione di percorsi di legittimazione della produzione di senso da parte delle persone.
Ci sembra completamente fuori strada ogni discorso che, privilegiando le diverse strategie tecniche di intervento, che si tratti di farmaci o psicoterapie, cognitive o psicodinamiche, resti prigioniero di una dimensione esclusivamente determinata dalle discipline e i saperi psy. Si tratta di un discorso inevitabilmente destinato a perpetuare la illusione di qualunque sapere che si illuda di conoscere la verità dell’altro.
Chi ha lavorato nei vecchi ospedali psichiatrici, come chi ha attraversato quelle misere istituzioni post-manicomiali attuali che rispetto ai manicomi spesso non sono sufficientemente cambiate, ha incontrato servizi disumani, miserabili, violenti, indipendentemente dal fatto che operassero in essi, pure in posizioni apicali, ottimi neuroscienziati, psicoanalisti di chiara fama o psicologi con qualificate formazioni. Cattivi servizi trasformano tutti in complici dell’epistemologia istituzionale in cui sono immersi.
Sarebbe necessario riportare il focus sulla qualità dell’organizzazione dei servizi, sul legame necessario tra essi e il “sociale” con cui interagiscono, da cui raccolgono bisogni e in cui dovrebbero agire in senso trasformativo. Si tratta di un discorso che interpella direttamente la politica: il problema è l’attuale temperie culturale che irride il servizio pubblico, che chiude i presidi territoriali, che depotenzia il personale, che ignora la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che, mercificando la città e interpretando in modo ultraliberale ogni aspetto delle relazioni e della vita delle persone, rende quel sociale un mero campo di applicazione di interventi manageriali, in virtù dei quali anche ogni forma di assistenza finisce per riprodurre e confermare le “vite di scarto” la cui generazione è sempre all’opera nelle forme di “social suffering” urbano, su cui poi le discipline psy come sempre articolano un inerte apparato descrittivo-classificatorio rivolto principalmente ad oscurarne la dimensione etica e le responsabilità politiche. Ci sembra fuori strada, oltre che datato, un discorso incapace di tenere conto dell’impatto che tutte le politiche hanno sulla salute mentale, da quelle abitative a quelle educative, dai modelli di previdenza sociale alle scelte urbanistiche, dall’accesso al reddito per tutti alla dignità e ai diritti legati alla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici. È obsoleto pensare che la salute mentale possa rimanere un discorso tecnico-specifico mentre ciò che ora è importante tematizzare per parlare di salute mentale è la necessaria rivoluzione del rapporto tra settore pubblico e settore privato, attualmente basato su un abbraccio mortale tra delega da una parte e parassitismo dall’altra, pretendendo dalla politica e contribuendo a realizzare un rapporto nuovo: un settore privato più trasparente su come si generano i soldi e su come vengono pagati gli operatori e le operatrici, sulla qualità della loro formazione e sulla dignità della loro condizione lavorativa e un settore pubblico più responsabile, che non usi il privato sociale solo come pattumiera per le situazioni più complesse, su cui si concentrano minori investimenti. Allo stesso modo va affrontato senza alcuna semplificatoria demonizzazione il discorso dei farmaci e dell’influenza che Big Pharma esercita sulle discipline psy. I laboratori del complesso farmacologico-industriale non sono né lontani né vicini a chi soffre: essi inventano e producono psicofarmaci che oltre che essere, e meno spesso di quanto si creda, benefici per i pazienti, costituiscono soprattutto una merce messa sul mercato. Gli psichiatri, tutti, comprano questa merce e sono esposti alle comprovate manipolazioni di Big Pharma. La questione centrale, dunque, è come far cessare tale influenza e come, grazie alle tanto demonizzate evidenze, rendere evidenti non solo i benefici ma soprattutto i rischi. Solo un’azione decisa sulla dimensione pubblica dei servizi, della formazione, della ricerca può costituire un argine a questo potere della mercificazione e agli effetti culturali che ne provengono.
Non saranno un maggiore orientamento psicodinamico, una maggiore disponibilità di psicofarmaci, una maggiore accessibilità a psicoterapie individuali sul mercato o una maggiore formalizzazione burocratica delle pratiche riabilitative a rendere la fragilità epistemologia e morale della psichiatria e della psicologia meno fragile. Quello che sappiamo è che la psichiatria e le altre discipline psy fanno male non perché siano troppo o troppo poco biologiche ma perché sono normative e producono gravi asimmetrie di potere. Bisogna smettere di pensare che ci sia una psichiatria cattiva perché biomedica e una buona perché psicodinamica, o viceversa. Pur di fronte alla constatazione che le ricerche di evidenze non hanno prodotto significativi miglioramenti negli esiti e nei trattamenti, non si giunge mai abbastanza fino in fondo alla messa in discussione della retorica per cui psichiatri e psicologi conoscerebbero i desideri dei pazienti meglio dei pazienti stessi; non si dice abbastanza contro la mai sopita convinzione epistemologica del pensiero psicodinamico di conoscere l’altro anche quando tale conoscenza non è data, come ci ricorda Merleau Ponty; non si contrasta abbastanza la presunzione di sapere di esperti di neuroscienze e di discipline psy che poi finisce sempre a colludere con l’istanza di controllo sociale tradizionalmente legata al ruolo della psichiatria nella modernità.
È necessario investire con questa critica tutto il campo dei saperi psy, e non solo quello di un certo orientamento: è infatti tutta la psichiatria che non ha saputo migliorare gli esiti delle sue pratiche e quando essi sono migliorati non è stato certo grazie alla psichiatria. La psichiatria, come istituzione costruita su teorie della normalità e della patologia, come ente incaricato di gestire le vite di scarto, come luogo della pretesa di capire l’altro e orientarlo, come luogo fisico dell’esercizio della forza, spesso, invece che fare stare meglio ha fatto stare peggio. Un sapere ancora medico-centrico, che irradia verso tutta la società una irresistibile tendenza a delegare ai tecnici il discorso sulla qualità della vita delle persone, deve essere messo in questione ricomponendo i possibili elementi di valore descrittivo delle discipline e l’aspetto etico della capacità di incidere sulle trasformazioni sociali. Si tratta di riconoscere, come tecnici, la funzione politica che hanno le nostre discipline quando veniamo chiamati a fare da mediatori nei rapporti tra chi ha voce e chi non ha voce, scegliendo di conseguenza convintamente per la limitazione del nostro potere-sapere a vantaggio dei non-professionals, delle popolazioni marginalizzate, in definitiva di chi è escluso dalla società.
Malgrado il rispetto che nutriamo per parte dei colleghi e delle colleghe coinvolte nelle varie campagne di mobilitazione “dall’alto” che vediamo in questi mesi, riteniamo più urgente sviluppare un pensiero sul “non sapere” delle discipline psichiatriche e psicologiche. É urgente dirlo e urgente agire di conseguenza particolarmente nel momento storico attuale, mentre è necessario immaginare un welfare che sia uno strumento reale di democrazia, di accesso a poteri, risorse, beni, necessari ad “aspirare” ad una vita di qualità. Come avviene per altre questioni, dire che siamo di fronte ad una “emergenza” in salute mentale permette di esimersi dall’affrontare la dimensione strutturale e sistemica del problema. Partire dal riconoscimento del nostro “non sapere” come esperti psy, mettere in questione il ruolo politico che le nostre discipline svolgono, può essere un primo passo per un processo di vera apertura a quel “sociale” di cui vorremmo veder emergere i bisogni reali e la attiva capacità di trovare soluzioni, senza stringere nessuno nelle maglie strette delle interpretazioni e delle illusioni conoscitive.
Benedetto Saraceno, Luca Negrogno