di Silva Bon
Io sono una storica, e nello stesso tempo sento di poter rappresentare l’umanità delle persone con esperienza di disagio mentale, perché ho attraversato momenti drammatici e faticosi di sofferenza, di cui ho spesso dato testimonianza in coming out pubblici e in testi scritti. Pertanto mi sento particolarmente coinvolta.
Ho attraversato gli spazi del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste fin dai primissimi anni Novanta del Novecento, con una continuità che dura fino all’oggi. Ho avuto così modo e occasione di partecipare a molti eventi, incontri, Convegni di psichiatria, sia in Italia che all’estero. Un buon punto di osservazione che è stato anticipato dal fatto che, vivendo a Trieste, sono stata partecipe del momento rivoluzionario dell’abbattimento del manicomio, realizzato da Franco Basaglia e da tutta la équipe che lavorava assieme a lui, sostenuti, fatto essenziale, dall’impegno politico di Michele Zanetti, Presidente della Provincia. Dopo è stata promulgata la cosiddetta legge 180, il 13 maggio 1978.
Prima del pensiero critico portato avanti da Franco Basaglia a Gorizia nel 1961, dove si era creato un collettivo di discussione e dibattito anche acceso, ma costruttivo, assieme a Franca Ongaro Basaglia, Agostino Pirella, Antonio Slavich, e pochi altri, la struttura manicomiale era un luogo simile a una prigione, a un lager, in cui erano rinchiusi i matti. Non persone. Ma oggetti, privi di identità, isolati e dimenticati da tutti. Su di loro venivano praticate forme di interventi pseudo-scientifici aberranti, violenti, devastanti, a cominciare dall’elettroschok. La contenzione fisica, l’isolamento nei camerini, le gabbie, erano un fatto normale.
In questo contesto ogni eventuale reazione attiva dei matti era impossibile, e se qualcuno manifestava forme di ribellione, queste erano intese come manifestazioni di violenza, di malattia; e i matti, dopo immediati interventi repressivi da parte di infermieri e medici, erano rinchiusi nel reparto “Agitati”, stigmatizzati come “pericolosi”.
Sono le cosiddette “Assemblee basagliane”, le prime forme di apertura democratica riabilitativa, praticate a Gorizia dall’équipe di Franco Basaglia, a dare per la prima volta in Italia la parola ai matti, che vengono ascoltati, anche quando la stessa dirigenza del manicomio viene messa in discussione, in qualche modo contestata. Ne parla anche Basaglia nei suoi libri: un internato protesta, in una Assemblea, per denunciare il fatto che, alla fine di tutto, i medici potevano tornare nelle loro case e invece i degenti rimanevano, dovevano rimanere in ospedale! Parole forti, che fanno pensare. Forse il famoso slogan, scritto più tardi sui muri dell’ex manicomio di Trieste, “La libertà è terapeutica”, nasce proprio da questo primo episodio, di cui è protagonista un degente.
Certamente, intorno agli anni Sessanta, il pensiero teorico e la azione pratica di Franco Basaglia si inseriscono in un contesto europeo particolarmente vivace, anche a livello filosofico, sociologico e antropologico, nonché sociale e politico. Altre singolari forme di messa in discussione della realtà manicomiale vengono attuate ad esempio in Inghilterra o in Francia, dove prende piede una corrente radicale, chiamata “antipsichiatria”, molto lontana dalla strutturazione del pensiero basagliano.
In Italia, soprattutto a partire dagli anni Settanta, le cose cominciano, possono cominciare a cambiare: siamo in anni di fermento e innovazione, basti pensare al movimento studentesco, che si ricollega alle rivendicazioni degli operai, alle richieste femminili e femministe. In questo ambito anche nel mondo della psichiatria succedono episodi sparsi a pelle di leopardo, dal Nord al Sud, che restituiscono spazio alla soggettività delle persone internate. Si comincia ad ascoltare le loro voci, cominciano a costruirsi forme di protagonismo e di presenza attiva, proiettate non solo all’interno della ex-struttura manicomiale, ma anche all’esterno, nelle città. Penso qui, alla gloriosa marcia nelle strade e nelle piazze triestine del corteo radunato intorno a Marco Cavallo, diventato poi emblema della rivoluzione in tutta Italia: è un momento altamente simbolico e nello stesso tempo rappresenta una conquista concreta, una volta divelti i cancelli dell’istituzione-manicomio. I documenti fotografici che attestano quei giorni, quei momenti, vedono i matti in prima fila, orgogliosi co-protagonisti. È questa una sfida a pregiudizi, stigma, impossibilità, una lotta comune che vede insieme operatori e utenti.
La fine del manicomio permette nuove esperienze di vita a personalità particolarmente accese, che sentono l’urgenza di esserci e di dire: ad esempio, a Milano la poesia di Alda Merini trova dignità letteraria, ascolto e consensi, prima negati, a livello nazionale e internazionale. Così anche in Sicilia, a Palermo, un’altra poeta, Maria Fuxa, diventa simbolo di nuove possibilità e testimone di ritrovata salute mentale. La creatività, che si esprime in svariate espressioni artistiche, trova nuovi spazi di visibilità inclusiva: a Trieste, l’allestimento di molte mostre premia le opere della pittrice Clara Zini; ma soprattutto le forme teatrali di Claudio Misculin, capocomico della Accademia della Follia, ospitata in tanti teatri e piazze nazionali, diventano primo esempio per molti altri gruppi teatrali diffusi, a Modena, a Venezia, a Belluno, e tanti altri meno reclamizzati.
In questi anni, man mano che progressivamente si chiudono le istituzioni manicomiali, si creano, in forme di co-progettazione, diverse esperienze innovative, sparse sul territorio italiano: a Catania, in Sicilia; a Latiano, in Puglia; in Campania, intorno a Napoli; in Toscana, a Livorno; a Milano, negli spazi intorno all’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini … Sono realtà parcellizzate, eppure vive. Oggi si sente il bisogno di ricordarle, per creare memoria storica di accadimenti che non vanno sottovalutati; penso, anzi, che devono venir valorizzati, per essere trasmessi alle nuove generazioni di operatori e di fruitori dei Servizi, dare slancio e fiducia operativa. Sono tutte sperimentazioni atte a trasformare le forme mediche basate sui saperi tradizionali psichiatrici in processi funzionali liberatori di energie, di possibilità, che le persone con esperienza di sofferenza mentale pur hanno pre-requisite. Sono interventi che mettono in moto azioni di ri-appropriamento della propria vita, crescita di autostima, inclusione sociale, abitativa, lavorativa, al di là dei discriminanti sociali, che tanto incidono sui vissuti umani. E oggi questo problema delle nuove diseguaglianze si impone con evidenza agli occhi di tutti.
Personalmente sono stata coinvolta, in qualità di Presidente, nell’attività dell’Associazione “Luna e l’Altra”, che, con una convenzione con il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, opera nel campo della salute mentale di genere. Ho lavorato per anni con molte donne, che, tra l’altro, tra molto altro, hanno raccontato in emozionanti testi scritti, in prosa e in poesia, le loro storie di recovery. Siamo uscite anche come Autrici indipendenti in raccolte pubblicate autonomamente. E questo è protagonismo, che consolida salute mentale.
Sono collegata anche alla Rete Utenti Nazionale, che sta scrivendo un suo Statuto, su cui basare le funzioni operative di una Associazione che sorge dal basso. È questa, una grande novità. Infatti in Italia, in questi ultimi decenni, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici, non è mai stata troppo forte la voce reclamante giusti diritti, da parte delle persone con esperienza di disagio mentale. Diversamente che altrove, in Europa e in America. Nel mondo anglosassone soprattutto, gli utenti sono collegati ed attivi, perché si contrappongono alla dura realtà di istituzioni manicomiali e di pratiche invasive, espresse anche con forme coercitive. Oggi anche nel nostro Paese si sta diffondendo maggior consapevolezza, denuncia di abusi, richiesta di nuovi protocolli medicali, e, in particolare, ribadita necessità di cure e di interventi psico-sociali. La tecnologia è di aiuto: noi utenti ci colleghiamo su piattaforme on line e la discussione è matura, portata avanti da persone che lottano contro lo stigma e l’auto-stigma, e ogni forma di abuso pseudo-scientifico.
La presenza attiva dei familiari, caregivers per primi coinvolti nelle difficoltà di sostegno quotidiano, oggi si fa sentire attraverso la rete di Associazioni, riunite nella UNASAM nazionale, di cui faccio parte, lavorando nel Comitato scientifico. La voce dei fruitori dei Servizi, utenti e familiari, è sollecitata, richiesta ed ascoltata soprattutto nell’ambito basagliano: infatti la Salute Mentale di Comunità, evoluzione progressiva dei principi basagliani, vuole costruire coesione sociale e crescita collettiva, operativa, nelle persone che attraversano gli spazi dei Centri di Salute Mentale. In questi giorni, tutti insieme, operatori, utenti e familiari, stiamo lottando per richiedere Centri diffusi, aperti sul territorio regionale, 7 giorni su 7, 24 ore al giorno, perché di queste forme di aiuto abbiamo bisogno. Esse costituiscono un nostro diritto.
Penso che il grande intellettuale del Novecento, Norberto Bobbio, ha veramente ragione quando afferma che l’unica rivoluzione compiuta degli anni Settanta è stata quella della soppressione dei manicomi. Una rivoluzione possibile, che ho già brevemente contestualizzato. Ma io vorrei che la spinta, l’entusiasmo, la forza progressive di allora non andassero perdute. L’insegnamento e la prassi, messi in campo da Franco Basaglia e dai suoi epigoni, non vanno rinchiusi nel passato, come un fatto isolato nel tempo, non più ripetibile. Le varie creazioni museali e archivistiche che oggi stanno sorgendo; i Seminari universitari internazionali di alto livello scientifico organizzati a Pisa, a Torino, a Parma; ribadiscono la necessità di non dimenticare. Ma la Memoria serve a costruire futuro. Quelle esperienze, soprattutto non vanno imbalsamate, soccombendo inattivi a una involuzione, una regressione che mi sembrano pericolosamente in atto. Le pratiche improntate alla costruzione di Salute Mentale di Comunità non sono frutto di ideologia, ma sono ispirate e motivate da evidenze mediche, testimoniate da tante persone, che hanno ritrovato occasione e volontà di vivere.