(dipinto di Francesco che frequenta il Laboratorio Creativo nel Centro Diurno di Aurisina - Trieste)
(dipinto di Francesco che frequenta il Laboratorio Creativo nel Centro Diurno di Aurisina - Trieste)

di Peppe Dell’Acqua.

Nell’estate del 2012 Marco[1], diciassettenne, chiede aiuto a sua madre. È molto inquieto e disorientato.  Riesce finalmente a dirle che “fuma”.

I genitori di Marco sono nati nel milanese e lì hanno sempre vissuto. Di Marco si racconta una tranquilla fanciullezza. Non ha avuto problemi a socializzare e il suo rendimento scolastico è stato sempre adeguato. Il nonno materno, panettiere e pizzaiolo, è arrivato a Milano negli anni ’60, dalla Campania. Anche i nonni paterni sono campani. Al nonno materno è stato molto legato ed è tuttora una presenza importante. I genitori raccontano delle vacanze, dei viaggi dell’estate. Marco ama molto viaggiare, vedere città, collezionare oggetti e approfondire una sua piccola passione per la geografia. Ha giocato a calcio nella squadretta della parrocchia fino ai 12 anni e poi, per circa 3 anni frequenta una palestra perché ritiene di essere gracile. La scelta dell’Istituto Alberghiero perché il nonno aveva la pizzeria. Ha fatto vari stages nei ristoranti, e si è fatto sempre apprezzare.

Marco viene “raccontato” dai genitori e dagli zii come un “bravo figlio”. È ubbidiente, passa molto tempo con la famiglia. È sempre andato in vacanza con loro.

Da qualche tempo, da quanto ha cominciato a fumare non è più tranquillo. Fa fatica a capire cosa gli sta accadendo e oscilla tra il desiderio di “tirarsi via” e quello di aderire senza timori alla cultura del gruppo. Non si capisce bene cosa accade. Marco viene interrogato dai carabinieri su un compagno di classe che “portava il fumo” a scuola. Da qui la paura e una fastidiosa insicurezza. Le cose che accadono intorno a lui sembrano inviare continuamente segnali minacciosi. Si difende limitando i suoi contatti con gli altri. Marco viene più volte minacciato dal suo compagno “spacciatore”. Dice che gliela farà pagare per quello che ha detto ai carabinieri. Cresce un clima di sospetto e di inquietudine. Non è capace di gestire questa situazione: è sospettoso, tende a interpretare, a ritirarsi. Quando parla con la madre propone egli stesso di andare al servizio per le tossicodipendenze. Vuole liberarsi dal fumo. La madre lo fa visitare da uno psichiatra in privato. I programmi e i ricoveri che si succedono non realizzano mai una presa in carico reale. Viene avviato a centri diurni e a programmi di riabilitazione. I vari attori della cura non si riconoscono e non si realizza mai un programma condiviso. Il servizio per le dipendenze opera i controlli e propone il centro diurno, il servizio psichiatrico territoriale somministra i farmaci, i servizi ospedalieri contengono e “aggiustano”(?) le prescrizioni farmacologiche, lo psicologo privato fa le sedute. L’inquietudine di Marco pretenderebbe altro. In questo momento sta rischiando “di perdersi”. Sente la sua inadeguatezza rispetto ai compiti che ora gli si presentano grandi e inaffrontabili: gestire il problema del fumo, dell’amico spacciatore, dei carabinieri. Vive una condizione emotiva angosciosa, timorosa, lacerata. In una clinica milanese, al primo ricovero, osservano tutto questo. Comincia a instaurarsi una condizione che allude a uno “stato mentale a rischio”. Condizione questa, tipica dell’adolescenza, caratterizzata da sintomi propri delle psicosi che tuttavia sono di breve durata e di bassa intensità. La chiusura e il ritiro sociale rischiano di impedire la carriera scolastica. Tre su dieci degli adolescenti che vivono queste esperienze rischiano di transitare verso un disturbo psicotico.

Lo stato mentale a rischio pretende di essere affrontato con estrema cautela e con una disposizione di percorsi terapeutici singolari che coinvolgano la famiglia, la scuola, i contesti di vita e di lavoro. Si tratta di una condizione estremamente dinamica, mutevole e “instabile”.

Il pomeriggio del 10 luglio 2014, Marco si trova in casa con sua madre e le chiede insistentemente una sigaretta. Le sigarette per paura che possano farlo stare peggio vengono dosate dalla madre. Ne nasce un diverbio. Marco le risponde arrabbiato che non è un bambino. Poco dopo, con in mano un coltello, entra nella stanza della madre, lo lancia sul letto e con un tono che la madre riconosce più amareggiato che minaccioso, le dice che nessuno lo sta veramente aiutando. Dopo questo burrascoso episodio, tutto si placa. Telefonano allo psicologo che privatamente ha in cura Marco. Lo psicologo, allarmatissimo, consiglia di portarlo immediatamente in ospedale. Non viene accolto per mancanza di posti e, dopo varie ricerche in tutti i Servizi psichiatrici della Lombardia, viene inviato in un altro ospedale distante più di 100 chilometri. Si ritrova così ricoverato lontano da casa e malgrado l’evidente disagio si fida di quanto stanno facendo i suoi genitori.

Il percorso terapeutico di Marco sembra muoversi attraverso un groviglio di indicazioni contraddittorie e di servizi che fanno fatica a comunicare tra loro.

I genitori comprendono poco, forse solo che il loro compito è somministrare con attenzione i farmaci prescritti. Diventano così particolarmente attenti alle dosi, alle ore, ai cambiamenti delle prescrizioni.

Il pomeriggio del 29 settembre, Marco si trova a casa con sua madre. È stato a lavorare in panetteria dallo zio. Aveva anche dormito a casa degli zii per iniziare presto il lavoro al mattino. È rientrato da più di 2 mesi dall’ospedale dove è rimasto ricoverato per circa sei giorni. Ora è in rapporto con il servizio territoriale, il Centro psicosociale (Cps) vicino al suo paese. Il padre, al rientro dal lavoro, ricorda a Marco di prendere i farmaci che quella mattina non ha potuto prendere, poiché si trovava a lavoro. Marco prende i farmaci, ma mostra tutta la sua insofferenza e alzando la voce dice: «solo farmaci mi dai, io ho bisogno di altro aiuto!» Il padre cerca di rabbonirlo. Marco invece si sente preso in giro. Il diverbio diviene più incalzante. Alla vicinanza bonaria del padre, Marco risponde con rabbia, lo spinge lontano da sé e lo colpisce con un calcio. Dopo poco, la tensione con i genitori si scioglie. Marco si è tranquillizzato, dormirà dalla zia e all’indomani andranno al Cps per una verifica. Siamo al 30 settembre. Dal Cps viene inviato per un ricovero al Servizio di diagnosi e cura di un’altra cittadina della Brianza, accompagnato dal padre e dalla madre. Marco viene ricoverato e gli viene detto che resterà per pochi giorni. Dopo una settimana, vengono convocati i genitori. I medici vogliono comunicare che il ricovero verrà prolungato. Marco, che pure ha subito più di un ricovero nel corso degli ultimi due anni senza mai protestare, ora dice di voler andare via. Ha più volte detto ai genitori che in quel reparto non si trova bene, che in quel ricovero non gli è d’aiuto. Al colloquio cui partecipano anche due infermieri, la dottoressa del reparto comunica ai genitori che sarà bene che resti almeno per altri quattro giorni. Marco è insofferente vuole assolutamente andare via. La dottoressa insiste. La negoziazione in pratica non avviene e dura poco meno di cinque minuti. Marco chiede la solidarietà e la protezione dei suoi genitori, batte un pugno sul tavolo, si alza di scatto, allargando le braccia urta suo padre che gli è seduto accanto. Per gli infermieri è il segnale: fanno uscire il padre e si avventano sul ragazzo, che viene steso a terra. La madre, impaurita, cerca di far qualcosa ma viene spinta in una stanza perché non veda. Marco è bloccato a terra. Viene chiamato l’anestesista. È evidente che in questi servizi il “modello” chimico farmacologico prende il sopravvento su ogni cosa, fino a fare scomparire Marco, dolente, inquieto, che chiede di essere altrimenti aiutato. Piange disperatamente e invoca il soccorso della mamma e del papà. È terrorizzato. Urla che lo stanno uccidendo, che sta morendo! Si ribella. Gli psichiatri compilano il modulo (!) per la richiesta del Trattamento sanitario obbligatorio. Sembra che ora il Tso apra e garantisca le violente procedure che gli operatori del reparto hanno in mente. Marco viene sedato e portato nella stanza della contenzione (c’è una stanza della contenzione), dove resterà legato per otto giorni interi. La madre viene mandata via. Prima di uscire senza essere notata, riesce a vederlo legato mani e piedi. Le verrà vietato di far visita al figlio. Eugenio Borgna riflettendo su queste pratiche scrive «nell’area di una psichiatria indifferente ai valori dell’interiorità, e incentrata esclusivamente sulle terapie farmacologiche, rinasce nondimeno ogni volta la tentazione di utilizzare la contenzione senza farsi tante domande sulla sua frantumata fondazione etica»[2].

Quando finalmente possono fargli visita, Marco dice tutto il suo dolore, la mortificazione che ha subito. Non capisce il perché di tanto accanimento contro di lui. La madre e i “curanti” gli dicono che “aveva aggredito” medici e infermieri. Era pericoloso! Marco non può capire queste spiegazioni e risponde che tentava di difendersi, altro che aggredire, visto che era lui a essere aggredito! Questa semplice e banale risposta trova posto sulla cartella clinica con questo commento: «non è ancora in grado di riconoscere la realtà».

Non è possibile non dire che gli stessi medici denunceranno il comportamento di Marco alla magistratura. Segnalano la sua incontenibile aggressività, la sua evidente pericolosità sociale, le aggressioni subite dal padre , dalla madre e dagli operatori stessi del reparto. Viene dimesso dopo 17 giorni. La famiglia allargata si riunisce per accoglierlo. L’incubo è finito.

Mentre i nonni, gli zii, gli amici gli sono intorno a fargli festa arrivano i carabinieri a prelevarlo per l’esecuzione dell’ordinanza di internamento in Opg: pericoloso socialmente, misura di sicurezza provvisoria ai sensi dell’art. 206 c.p.

Due masi di Castigglione, quattro di comunità. Sei mesi di privazione della libertà e otto giorni di contenzione. Al processo il perito e il giudice non  riconoscono la pericolosità. Marco viene liberato seduta stante!


[1]La storia è tratta da “Il nodo della contenzione. Diritto, psichiatria e dignità della persona”, a cura di S. Rossi, edito presso Alpha Beta Verlag nella Collana 180.

[2]E. Borgna, Introduzione, in G. Del Giudice, …E tu slegalo, cit., p.

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