Questo non significa che non esista il diverso come fenomeno umano […]. Il problema sta proprio nella necessità di cancellare il “diverso” come se la vita non lo contenesse, e quindi la necessità di eliminare tutto ciò che può incrinare la falsa contraddittorietà di questa facciata terza e pulita, dove tutto andrebbe bene se non ci fossero le pecore nere.
Franco Basaglia, La pratica della follia, 1974
Il 28 novembre 2023 si è tenuto a Roma un evento per i cinquanta anni di Psichiatria Democratica. Molte le presenze e le voci che hanno animato la serata, la quale non è stata voluta per commemorare una data ma per rilanciare i valori della legge 180/78 e della legge 833/78, che hanno sancito l’inviolabilità del diritto alla cura per tutte le persone. Un’occasione, dunque, per avvalorare l’importanza della tutela della nostra Costituzione, oggi purtroppo fortemente a rischio, come ha sottolineato in apertura il segretario nazionale di Psichiatria Democratica Emilio Lupo.
Psichiatria Democratica è un’organizzazione che è nata nel 1973 da Franco Basaglia e da altri protagonisti del movimento di riforma, animati dall’interesse di mettere insieme salute mentale, giustizia ed emarginazione sociale. A Gorizia il 22 e 23 giugno del 1974 si tenne il primo convegno in cui furono discussi tre temi fondamentali ed esposte tre relazioni e una proposta: “Psichiatria e Giustizia” di Franco Basaglia; “Emarginazione sociale” di Natale Calderaro, Pierluigi Adamo, Vito Petruzzellis, a cui fece seguito un intervento di Franco Rotelli; “Formazione degli operatori” di Sergio Piro e Michele Russo, e “Proposte organizzative” di Antonio Slavich. Al centro dell’interesse era raggiungere la chiusura dei manicomi quali luogo di esclusione, mettendo anche in discussione il potere del medico, denunciando anche il pericolo di meccanismi istituzionali coercitivi e lesivi della dignità personale. Tematiche ben lontane dall’essere risolte a quei tempi, come si legge nella prefazione di Gianfranco Minguzzi agli atti del convegno, intitolati La pratica della follia, e ancora attuali a distanza di 50 anni, e che necessitano di un impegno continuo.
Un impegno che oggi si sta trasformando in una rinuncia da parte della politica e delle istituzioni, e che invece Psichiatria Democratica vuole rilanciare. Essenziale farlo per difendere una visione della salute oggi sempre più colonizzata da una logica neopositivista e organicista, quella stessa che è stata alla base della “cultura della follia” e che in passato ha visto le istituzioni totali come la migliore soluzione alla sofferenza umana.
Il grande progresso di emancipazione a cui è giunta la nostra società, e che personalmente ho avuto il privilegio di conoscere dai protagonisti della riforma, è una conquista che è stata ottenuta con una lunga storia di trasformazione, che oggi purtroppo viene taciuta dalle agenzie informative e dai media, e omessa nelle scuole e nelle università. A tal proposito emerge forte l’importanza di rilanciare il diritto alla cura senza darlo per scontato, seguitando a difendere i diritti e a sostenere il bisogno di “chi non ce la fa da solo”, come afferma Lupo.
Per fare questo bisogna cominciare innanzitutto dalla volontà di indirizzare il linguaggio, come afferma il giurista Mauro Palma, perlopiù “in questi tempi in cui tornano parole come “incapacitazione e segregazione”. Questo vale per gli istituti di garanzia che devono avere prima di tutto la funzione di igiene linguistica, e vale anche per gli operatori che “non devono cedere al conformismo che è ruggine per il pensiero critico”, come afferma il presidente di Psichiatria democratica Antonello D’Elia, e che devono tornare a interessarsi della persona e della sua biografia. “Quando si parla di salute mentale”, prosegue D’Elia, “si parla di un modo di essere, di un modo di stare dell’operatore; si tratta di qualcosa che non è scrivibile in nessuna legge, ma che si costruisce attraverso dei valori e che è trasmissibile. Ciò non si apprende attraverso il tecnicismo, poiché non riguarda la clinica ma l’umano. Un saper essere che oggi sta venendo meno, e che vede in crisi la salute mentale.
La preoccupazione giunge anche da Giusy Gabriele, tra i protagonisti della riforma a essere ancora in servizio come Direttrice del CSM della Asl Roma 2, la quale denuncia la criticità dei servizi, a partire dalla carenza del personale fino ad arrivare alla sovrapposizione tra giustizia e psichiatria, e alle scarse risorse economiche che oggi non consentono una vera integrazione lavorativa delle persone vulnerabili. Problemi che mettono in luce l’assenza della politica e la difficoltà degli operatori, oggi non più capaci di far leva su una memoria di investimento che consenta di difendere i risultati ottenuti in passato e di portare avanti le sfide future. All’appello mancano anche i giovani studenti, i giovani operatori, le associazioni di giovani familiari e i volontari, e manca soprattutto la volontà generale di aggregazione e costruzione di una forza condivisa. A tale scopo Psichiatria Democratica ha voluto pubblicare un libro a memoria dei 50 anni trascorsi, fruibile anche online, che vuole essere uno strumento divulgativo. Un libro che Giusy Gabriele consegna nelle mani del nipote di Franco Basaglia, suo omonimo.
Durante la serata diverse sono state le voci che hanno testimoniato l’importanza di tornare a esserci con più forza. Registi, attori, scrittori, rappresentanti delle associazioni dei familiari di Roma, operatori, e utenti hanno lasciato un messaggio ricordando che la lunga strada fatta fino a qui è stata il frutto di un’intenzionalità condivisa, che necessita di continuazione, poiché la salute mentale è benessere collettivo. L’importanza di adoperarsi per il rispetto dei diritti viene invocata a gran voce, e l’appello rivolto dalla Gabriele a tutti i partecipanti è che ognuno si adoperi nel proprio lavoro e con i propri mezzi per la continuità della memoria basagliana che rischia di essere dimenticata.
Si chiude così la prima parte dell’evento per i 50 anni di Psichiatria Democratica, prima del rinfresco e del brindisi finale, con l’augurio d riuscire insieme a diffondere un patrimonio “anticoloniale”, e dunque contrario all’intenzione istituzionalizzante che avanza, in modo da consentire ancora un futuro alla salute mentale, che possa riassumersi nel motto basagliano che “si può fare”.