“.. intendete parlare di cittadinanza, di diritti che vanno riconosciuti a ciascuno, di buone pratiche, utilizzando un’espressione che sottolinea non solo l’efficacia terapeutica ma anche la bontà di un agire, carico di tensione etica, con l’intento di favorire uno stato di bene per la persona che non si compone solo dell’assenza di malattia mentale.” (Cardinale Carlo Maria Martini, 2002)
L’Assemblea nr. 2 di “Impazzire si può” discute della disomogeneità dei servizi di salute mentale, del rischio che le persone corrono nel non essere riconosciute per quello che sono, per i bisogni che esprimono, per il desiderio di farcela che ognuno porta con sé. Oggi è evidente che i servizi possono/devono costruirsi per essere vicini alle persone e sostenere il loro desiderio di guarigione. Nelle singole realtà regionali riforme e organizzazioni tendono a accentrare poteri e ad accorpare servizi, a rischio di negare ai cittadini possibilità di cura, di partecipazione e di protagonismo. Anche la questione della chiusura degli OPG rischia, nella rigidificazione e indebolimento della rete dei servizi, di continuare a essere una storia senza fine.
Per riflettere sui temi dell’Assemblea nr. 2 ci piace riproporre uno scritto del Cardinale Martini del 2002: la sua apertura al convegno “La cittadinanza è terapeutica”:
Intendete parlare infatti di cittadinanza, di diritti che vanno riconosciuti a ciascuno, di “buone pratiche”, utilizzando una espressione che sottolinea non solo l’efficacia terapeutica, ma anche la bontà di un agire carico di tensione etica, con l’intento di favorire uno stato di bene per la persona che non si compone solo dell’assenza di malattia mentale. […]
Volendo offrire una qualche riflessione introduttiva a partire da ciò che mi è più familiare, cioè la Bibbia, vorrei richiamare un episodio narrato nel Vangelo di Marco (Mc 5, 1-20). Un uomo della città di Gerasa dai comportamenti bizzarri, indubbiamente inquietanti ed auto aggressivi (percuoteva se stesso con delle pietre) era stato relegato dalla sua comunità in un luogo di morte. Non poteva che vagare tra le tombe, lontano da esseri vivi, quasi a rappresentare quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e che per questo poteva, se pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla vita ordinaria.
Gesù si lascia avvicinare da questo strano personaggio angosciato ed impetuoso e gli chiede il nome, potremmo dire che comincia dal tentativo di riconoscimento della sua identità personale, non fuggendo dalla tensione che si genera nell’incontro con la sofferenza dell’altro. “Il mio nome è Legione perché siamo molti”, risponde l’uomo rivelando una scissione che non gli permettere di esprimersi in modo chiaro ed accettato da tutti, che non gli consente il gusto della relazione. Gesù sta con lui e fa qualcosa per lui: questo trasforma la sua vita.
Viene in mente l’utilizzo corretto e competente dello strumento del colloquio, ovvero di quello specifico momento clinico nel quale lo psicoterapeuta, lo psichiatra, lo psicologo, l’educatore, l’infermiere, l’assistente sociale, il terapista della riabilitazione instaurano una relazione personale con la persona sofferente e sanno partire dal suo nome per costruire con lui un progetto di cura che tenga conto della sua singolarità, non principalmente dei modelli teorici, delle linee guida, delle scuole di pensiero.
Nel colloquio avviene l’incontro tra almeno due persone che si svelano reciprocamente, l’una col bisogno di stare bene, l’altra col bisogno di capire ed aiutare. E’ il luogo dove colui che si prende cura, affina la capacità di “prescrivere se stesso come farmaco”, mettendosi in gioco con i suoi pensieri ed i suoi sentimenti.
Ci si pone accanto alla persona sofferente come possibili “custodi del segreto” nell’ascolto del mondo intimo dell’altro, lacerato da blocchi e contraddizioni, ma anche incredibilmente provocatorio nei confronti del curante. Nel colloquio, ciascuna delle persone coinvolte è come portata ad entrare nel mistero dell’altro – perché anche il malato mentale comprende molte cose intime dell’operatore che si avvicina a lui – e non può abdicare alla questione del senso.
Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse o negate, non sono diverse da quelle di ciascuno: una casa, degli amici, affetti esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare ed esprimersi. Le sue fatiche sono invece molto più grandi rispetto a quelle di chi non soffre: le idee possono essere bizzarre e non comprese, le risposte affettive inadeguate, le reazioni inaspettate, la voce per chiedere e rivendicare i propri diritti molto debole. L’uomo di Gerasa desidera andare verso Gesù, ma le sue parole risuonano come una minaccia e non come una richiesta di aiuto. Tante persone affette da disagio psichico riescono a formulare così impulsivamente il loro bisogno di cura e di vicinanza da risultare aggressivi agli occhi degli altri.
Eppure c’è in questa aggressività una domanda e una espressione di disagio profondo, che un grande scrutatore del disagio intimo della persona qualificava questa situazione così:
“Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subito, fin dall’infanzia, una compressione tale che tutta l’elasticità dell’anima e tutta l’energia della libertà non riescano più a scrollarla” (Kierkegaard)
Nessuno di noi sarebbe disposto a perdere l’energia della libertà, perché è la connotazione più alta dei nostro essere uomini. Eppure nella follia esiste una forza che può “avvolgere tutto ciò che altrimenti scatta in libertà”?
Ci chiediamo se possa esprimere libertà una persona che abbia la mente, il cuore, le relazioni sociali, le azioni quotidiane pervase dalla malattia. L’esperienza della vita insegna che il rapporto quotidiano, accogliente, affettuoso con chi soffre di disturbo psichico può aiutare gradualmente ad affrontare questa domanda, ad averne meno paura, fino a scoprire che nelle forme della sofferenza psichica – l’ansia, la depressione, l’eccitazione, l’ossessività, il delirio – è contenuto un ampliamento di noi stessi. Il sofferente psichico è costretto dalla sua malattia a fare i conti con la fragilità che tutti portiamo dentro: egli in un certo senso ci insegna a dare peso alla tristezza e alla gioia, alla noia e all’attivismo esagerato, all’eccesso di lavoro e al desiderio di averne almeno uno, alla famiglia vissuta come assillante e al senso di abbandono.
Egli conosce le tinte forti del vivere, sperimenta le amplificazioni di una fatica esistenziale che è anche la nostra.
La questione della libertà si pone in modo bruciante per una città, per un territorio, quando essa diventa teatro di un fatto sconcertante, drammatico, dove una persona innocente viene uccisa per un gesto che sembra compiuto da una persona psichicamente malata, ma in un contesto che tutti continuano a definire “normale”, nel quale non si riescono a delineare, almeno in una prima e sommaria rappresentazione mentale, quali siano i limiti tra mancanza di controllo del pensiero o degli impulsi e libertà di compiere il male. Si genera tra la gente un comprensibile sconcerto, si preferisce fare diagnosi di pazzia piuttosto che dover ammettere che un grande potenziale di conflittualità esasperata, di violenza, di cultura della morte è collocata proprio in mezzo a noi, nelle pieghe della quotidianità
L’uomo di Gerasa viene guarito non solo attraverso la relazione personale, ma anche grazie ad un’azione sociale, che l’evangelista racconta con tratti pittoreschi: Gesù ordina agli spiriti immondi di uscire da quell’uomo e gli spiriti stessi lo supplicano di non scacciarli dal paese, così che vengono fatti entrare in una mandria di duemila porci e immediatamente l’intera mandria si precipita nel mare.
La guarigione profonda dell’uomo chiede un prezzo – duemila animali sono una ricchezza non indifferente – a quella stessa società civile che non ha saputo accoglierlo, perché il benessere di una persona nella collettività è un fatto che investe tutti, che chiede tempo, energie, risorse, attenzione per il suo reinserimento sociale.
Se da un lato si attesta una crescente vulnerabilità psichica dell’uomo contemporaneo, come rivelano le percentuali in aumento delle persone con malattie psicosomatiche che si rivolgono al medico di base, dall’altra oggi più di ieri è difficile socializzare una malattia, particolarmente una malattia mentale. Il contesto sociale che può molto per contribuire alla cura, diventa spesso luogo ostile, dove si annidano pregiudizi, paure, disinformazione.
Siamo chiamati ad immaginare e quindi a realizzare nella concretezza il profilo di una città abitabile, dove non ci si senta indotti a vivere la paura dell’altro ma se mai la gioia dell’incontro e il desiderio di sperimentare relazioni positive. Un’attenta educazione al senso del bene comune ed al valore della partecipazione sociale può contribuire in modo decisivo alla costruzione di una metropoli da abitare, dove la cittadinanza, intesa come appartenenza attiva alla città, sia terapeutica perché fonte di benessere per tutti.
Una città vivibile è anche una città coraggiosa, che affronta le sfide della presenza multietnica e multireligiosa, che riflette sulle vite clandestine, sulle vite senza dimora, sulle vite condotte per la strada e segnate dall’abuso di alcool e sostanze, sulle vite spezzate da una solitudine molto profonda, sulle vite che sfuggono da paesi di orribile guerra come a vite che invocano istanze di giustizia, di intelligente solidarietà, di speranza in un futuro possibile.