di Oreste Pivetta. Non era questione nei programmi elettorali, Perché una legge c’è. Ma potrebbe essere questione per il prossimo governo, un prova a proposito di diritti, democrazia, rispetto della costituzione, civiltà. Il tempo a disposizione è breve.
Sembra un paradosso la fretta che entra in una istituzione immobile, chiusa attorno a persone che hanno perso ogni diritto, anche quello di contare, cioè misurare, il proprio tempo. Peggio di un ergastolo: esseri umani a disposizione di un ordine superiore, il magistrato e lo psichiatra, per una attesa che troppe volte si chiude con la morte, naturale o violenta, per suicidio (quarantaquattro suicidi negli ultimi dieci anni) o per sfinimento, talvolta solo per la consapevolezza di essere gli ultimi tra gli ultimi, più a fondo di tutti nel pozzo dei derelitti.
Il 31 marzo scade il termine: come prevede la legge 9/2012 (firmatari Ignazio Marino, Daniele Bosone, Michele Saccomanno), gli Opg, cioè gli ospedali psichiatrici giudiziari, dovranno chiudere, liberare la varia umanità dolente che imprigionano, la varia umanità che dovrebbe trovare altre strade per vivere, cambiare, progredire.
Quali strade ancora non si sa. Una volta gli Opg erano soltanto «manicomi criminali». Il nuovo nome è una maschera d’ambiguità e d’ipocrisia: «ospedali» fa pensare a una organizzazione sanitaria, «psichiatrici» dovrebbe indicare qualcosa che riguarda malattia e cura, «giudiziario» lascia cedere a una tribunale, a un codice, alle norme.
L’unico tribunale è quello che ha sottratto al «folle reo» anche la possibilità di essere giudicato come ogni altra persona, colpevole o innocente; la psichiatria è debole di per sé e per la debolezza delle strutture e pronta a cedere, per pigrizia o per insipienza, di fronte alla gravità della colpa, all’idea che quella condizione di segregazione sia ineluttabile e tutto sommato la più comoda per la società; l’ospedale è materialmente peggio di un carcere e le sbarre e i chiavistelli semplicemente «custodiscono» l’abbandono. Sarebbero bastate le poche immagini diffuse dalla televisione, dopo la visita nei nostri manicomi criminali della commissione d’inchiesta guidata da Ignazio Marino, per muovere lo sdegno, suscitare lo scandalo. Dopo la prima riprovazione sembra che tutto si sia spento. Prevale il senso comune di un Paese di poca cultura, che s’indigna a momenti, di fronte a uomini aggrappati alle inferriate di una prigione o stesi legati ad un letto di contenzione, ed è pronto a dimenticare la propria indignazione, quando una diversità qualsiasi minaccia la tranquillità, un paese che sempre considera il matto «delinquente» doppiamente pericoloso, perché è matto e perché delinque. Pazienza se il reato è un nonnulla, una reazione eccessiva, una collera, un pugno, magari soltanto «ubriachezza molesta»…
Il giudizio di infermità mentale, di incapacità ad intendere e volere sottrae il «folle reo» al diritto di un processo, alla considerazione delle responsabilità e delle attenuanti e lo condanna al rischio di «fine pena m ai», a un destino da dimenticati (dalla stessa famiglia). Succede che uno qualsiasi uccida qualcuno, succede che venga giudicato, che debba scontare una pena, ma che possa godere di patteggiamenti e di sconti di pena e dopo dieci anni possa ritrovare la libertà.
Così non accade a un matto, la cui «pericolosità sociale» è un’ipoteca sul futuro, una croce che nessun altro si porta addosso, una sanzione preventiva, una mostruosità. Un bel saggio, di un criminologo brasiliano, Virgilio de Mattos, analizza con grande chiarezza questi temi (presentandoci anche un’esperienza di superamento del manicomio criminale, nello stato di Minas Gerais). Scrive de Mattos: «In primo luogo deve essere assicurato il diritto alla responsabilità dell’imputato, essendo inaccettabile ritenere che un soggetto affetto da disagio psichiatrico non debba rispondere dei suoi atti. Non vi deve essere correlazione alcuna tra il disturbo mentale e il reato commesso. In secondo luogo occorre comprendere che il concetto di pericolosità non possiede alcun fondamento scientifico, essendo frutto più di un pregiudizio che di una situazione concreta riferito al futuro comportamento del paziente».
Una via d’uscita, questo il titolo del libro, pubblicato da Edizioni Alphabeta Verlag nell’Archivio critico della salute mentale, è una storia brasiliana (e molto italiana: basti pensare ai rapporti tra Franco Basaglia e il Brasile, documentati in uno splendido libro, Conferenze brasiliane), che rappresenta una condizione diffusa, universale e realtà diverse, in alcuni casi più crude che in altri, che racconta infine una stessa croce imposta in tutti i manicomi giudiziari del mondo: l’esclusione fino alla sparizione dietro le sbarre, materiali e metaforiche, di chi non riuscirà mai a liberarsi dallo stigma di matto e criminale. Per de Mattos tutti i cittadini devono essere considerati imputabili e penalmente giudicabili, mantenendo tutte le previste garanzie: un processo cioè che permetta di ricostruire i fatti, la possibilità di un contradditorio e di un’ampia difesa legale. A tutti deve esse re inflitta, in caso di responsabilità accertata, una pena secondo i limiti fissati dalla legge, con la possibilità di patteggiamenti, di cambiamento di regime, di libertà condizionata. Se sussiste il disturbo mentale e se si accerta la relazione tra la patologia e il reato, si potranno considerare attenuanti.
Si dovrà soprattutto considerare un percorso di cura e poi, scontata la pena, un modo per tornare alla società. «La magia del diritto penale – scrive de Mattos – è molto semplice: se c’è una compromissione psichica non esiste reato. Ma ci può essere una sanzione anche se non c’è reato. Basta che la sanzione si travesta da misura di sicurezza. Lo farà per difendere la società e l’autore stesso del reato, affetto dall’incapacità di intendere e di volere». In Brasile, come racconta il libro, un’esperienza diversa si è provata. Qui si chiamano in causa sensibilità nuove, attenzione e disponibilità: seguire il malato, accompagnare il folle reo, contro la scappatoia della segregazione. «I dati sono eloquenti: oltre mille malati di mente autori di reato sono stati seguiti in poco più di cinque anni … e la percentuale di recidive è stata prossima allo zero, principalmente per i reati contro la persona». Con costi, aggiunge il criminologo brasiliano, decisamente inferiore a quelli conseguenti all’internamento.
Alla scadenza del 31 marzo i sei ospedali psichiatrici giudiziari in Italia (Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto) non dovrebbero esistere più. I loro millecinquecento ospiti dovrebbero essere trasferiti in parte in sezioni carcerarie in parte in speciali case di cura (da venti posti letto ciascuna), affidate alle Asl. La legge subirà probabilmente un rinvio: vi sono incertezze nell’interpretazione e le strutture non sono pronte. Ma soprattutto, nella fretta di allestire camerate e infermerie, un’altra volta ci si è dimenticati del «soggetto», cioè del malato, di quel «pazzo criminale», tanto pazzo e tanto criminale, che non lo si punisce neppure per il reato che ha commesso, lo si seppellisce per la sua futura pericolosità, per la sua imprevedibilità, per la sua insuperabile cronicità.
La sanzione è l’esclusione. Con l’obbligo della cura. Quale cura? Dentro stanzoni lerci, freddi, in condizioni igieniche penose, tra muri cadenti e marci per la muffa, tra poche suppellettili consunte dall’uso e dalla sporcizia, gente solitaria, mai raggiunta da un piano terapeutico o riabilitativo. Per ora, se va bene, cadranno le mura di Aversa o di Barcellona Pozzo di Gotto o di Montelupo Fiorentino. C’è il rischio che altre mura si alzino, fresche d’intonaci e vernici, senza niente attorno, senza cure e senza diritti per chi è destinato, senza condanne, a viverci dentro.
( da l’Unità)